22 Luglio 2021 - 11.17

L’inferno musicale dei baby-trapper de noantri

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di Alessandro Cammarano

Per fare qualsiasi cosa, dal filosofo al dirigente d’azienda, dall’idraulico al sagrestano non basta volerlo: si dovrebbe studiare – ebbene sì, anche i sagrestani fanno corsi di preparazione del turibolo e vestizione talare – e lo si deve fare con tutta l’umiltà del caso, pronti ad essere corretti e facendo tesoro dell’esperienza di chi insegna.

Lo stesso, e anche di più, vale per chi si approccia al mondo della musica – qualunque sia il genere scelto, dal “cantus fixus” alle più spericolate arditezze elettroniche – che anzi necessità non solo di talento, ma anche e soprattutto di nozioni e della loro applicazione.

In epoca di social dilagante tutto quanto esposto sopra purtroppo vale zero, ma zero spaccato. Legioni di improvvisati mettono in mostra le loro miserie musicali a beneficio di followers che talvolta sono groupies adoranti ma assai più spesso si configurano nella categoria “ti prenderò per i fondelli per sempre”.

Il genere più praticato da non pochi sbarbatelli – in massima parte su Instagram – è la Trap, che i poveri adolescenti reputano forma musicale di facile realizzazione a livello tecnico e soprattutto aperta a testi “che li rappresentino”. I poveri raffazzonati ignorano che non esiste nulla di più rigidamente codificato del cosiddetto “freestyle”, il quale sottostà a stilemi dai quali non si sfugge; al contrario i trapperini pensano che sia sufficiente salmodiare – quasi sempre stonando –su una “melodia” mononota testi autoprodotti e da loro ritenuti essenziali per la comprensione della vita in ogni sua sfaccettatura.
A sentire i loro contenuti pare che abbiano vissuto per duecento anni esistenze che a confronto delle loro quelle di Baudelaire o Jim Morrison siano robetta da circolo delle bocce.

Ah…poi siccome la trap deve essere volgare, allora si va giù pesante col turpiloquio, che comunque fa meno ribrezzo delle sparate sessiste e dell’immagine che questi poco più che quindicenni hanno del corpo femminile. Il tono deve essere comunque scazzato, è essenziale che il testo si trascini fino a diventare una poltiglia incomprensibile, oltremodo gradito il canto “ruttato” che fa tanto vissuto .

I video con cui accompagnano le loro melopee son tragicamente autoprodotti e ambientati nella tristezza di camerette color pastello, magari anche con l’orsetto di peluche sul letto, e girati rigorosamente in slow motion o in time lapse. Alcuni azzardano a mostrarsi nel soggiorno di casa, con la cristalliera di nonna a fare da sfondo; altri, più arditi – e questi indicano anche il nome del produttore – tentano sortite bucoliche con risultati fantozziani.

Nel grigissimo mondo di questi fenomeni alcuni si distinguono più di altri; hanno più di un centinaio di followers – altri possono contare solo sulla cerchia familiare – e magari un pezzo su Spotify con tre visualizzazioni.

Tra i reucci di Instagram, e glorie locali ne abbiamo uno mette insieme parole a casaccio e ammette con candore “Non sto dicendo un cazzo, però senti come suona”; suona male, figlio mio bello, malissimo ma almeno è sincero e ammettere i propri limiti fa sempre onore.

Un altro ha un pezzo, uno solo, su Spotify almeno lavora un po’ sulla produzione e le parole sono un po’ meno ficcate a forza nella usuale trenodia; peccato che il testo di sia un florilegio di zozzerie a ruota libera che farebbe arrossire un forzato.

Poi c’è uno che canta letteralmente “con il cuore in mano”, vale a dire che nel video campestre abbinato ai singulti trapperiani il nostro piccolo eroe stringe un pezzo di carne cruda che se è un cuore vero allora fa solo ribrezzo, ma nel caso si trattasse di un pezzo di cappello del prete allora sarebbe da rifilargli un piattone nel sedere per aver sprecato un taglio di carne pregiato.

Poi c’e un cucciolo, che fa tantissima tenerezza con i suoi video sul terrazzo di casa o davanti al laptop e i cui testi sono, in confronto ad altri, castissimi. Il problema è che sembra stia sempre per sentirsi poco bene: dell’intonazione parliamo un’altra volta.

Ragazzi, o meglio ragazzini, volete cantare sul serio? Andate a scuola e soprattutto fatevi regalare un dizionario.

Alessandro Cammarano

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