4 Febbraio 2025 - 9.43

La “guerra dei dazi” congelata per un mese, sembra la roulette russa 

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Umberto Baldo

Quando venerdì scorso vi ho intrattenuto sul tema dei dazi annunciati da Donald Trump, (https://www.tviweb.it/wilma-dammi-la-clava-i-dazi-di-donald-trump/ ) vi confesso che non avevo la percezione precisa del se e quando queste nuove tariffe sarebbero state introdotte.

Ma evidentemente il Tycoon vuole restare fedele alla sua immagine di “capo che decide in tempi rapidi”, e se sta “incul….dosi” (scusate il francesismo) addirittura i funzionari dell’Fbi che hanno osato indagare su lui, licenziandoli, figuriamoci se poteva avere qualche remora, o ripensamento, sulla questione dazi.

Sono quindi costretto a ritornare sul tema a spron battuto, perché, ragazzi, quello dei dazi è un tema che, andando ad alterare i normali flussi delle merci fra i mercati, inevitabilmente finirà per influenzare le nostre vite.

Ritornando al “se e quando”, spiazzando un po’ tutti in realtà, nel fine settimana ha annunciato di aver firmato gli ordini che da oggi 4 febbraio dovevano far scattare un aumento del 10 per cento su tutte le importazioni dalla Cina, e nuovi dazi del 25 per cento sulle merci provenienti da Messico e Canada (con l’eccezione del petrolio, gas naturale ed elettricità provenienti da Canada, su cui graverà un’aliquota solo del 10%).

Le motivazioni per questa scelta sono quelle che conosciamo dalla campagna elettorale; proteggere gli americani”, facendo pressione sui tre Paesi affinché facciano di più per frenare la produzione e l’esportazione di fentanyl illegale, e affinché il Canada e il Messico in particolare riducano l’immigrazione clandestina negli Stati Uniti. 

Vi ho esposto nel pezzo di venerdì l’illogicità di questa scelta che, oltre a creare allarme in tutte le economie del mondo, come primo effetto avrà quello di far lievitare i prezzi dei prodotti che gli americani compreranno nei negozi e nei supermercati.

Ma ad un personaggio con il profilo psicologico di Trump importa poco o nulla del rischio di disgregare l’Occidente, trattando storici alleati come fossero clienti o sudditi. 

Lui ha preso impegni precisi con quella parte di americani che lo ha votato, e gli impegni si rispettano, anche se la storia insegna che le guerre dei dazi sono come le guerre vere: facili da iniziare, difficili da vincere, impossibili da controllare quanto ad effetti e conseguenze.

Non è che negli Usa non ci sia chi metta in guardia contro queste scelte; come ad esempio il  Wall Street Journal  che ha parlato della “più stupida guerra commerciale della storia”.

Ma io credo che noi facciamo un errore di fondo quando guardiamo agli Stati Uniti: quello di leggere i giornali delle coste, dal New York Times al Los Angeles Times, non rendendoci conto che quella è solo una parte dell’America; e non quella maggioritaria visto le dimensioni della vittoria di Trump.

E’ a quell’America  che parla Trump, che noi forse semplificando troppo definiamo “America profonda” , e che della quale alla fin fine non riusciamo a cogliere il senso vero.

Mi spiace ripetermi, ma in fondo è lo stesso meccanismo che sta portando alla sconfitta la sinistra europea nel suo complesso; una sinistra autoreferenziale e per certi versi “spocchiosa”, che crede che il mondo sia quello dei diritti, del green deal, delle porte aperte a chiunque si presenti alla frontiere, dei convegni, dei gay pride, della tutela di chi occupa le case, e non si accorge che la maggioranza dei cittadini vuole altro, e così regala alle destre ad esempio temi come la sicurezza, e alla fine anche i voti degli operai e del ceto medio.

Ma tornando ai dazi, io credo che Trump, nonostante sembri per certi versi un bullo di quartiere,  abbia in mente  dei modelli ben precisi, che mi sembra di riscontrare nei suoi discorsi e nel suo agire.

E il primo modello è quella “Dottrina Monroe” (L’America agli americani) teorizzata nell’800 dal suo predecessore James Monroe, che in realtà viene da lui declinata come “L’America agli Usa”. 

Questo spiega l’atteggiamento muscolare verso il Canada, Panama, il Messico, e a cascata tutti gli Stati del Continente Nuovo. 

Ma c’è un’altra dottrina che il Tycoon mi sembra abbia rispolverato, anch’essa a suo tempo lanciata da un altro Presidente, Theodore Roosevelt (da non confondere con Franklin Delano Roosevelt), che teorizzò la “Big Stick Policy” (Teoria dal grande randello).

Forse ha ragione chi afferma che per capire l’America bisogna guardare con attenzione alla sua cinematografia, e non quella raffinata alla Woody Allen. 

Sono passati molti anni, ma io ho ancora ben presente il film “Il Vento ed il Leone” del regista John Milius che racconta la vicenda del rapimento/salvataggio della ricca vedova americana Eden Pedecaris (Candice Bergman) con i propri figli, e della relazione di stima reciproca, seppur a distanza di migliaia di chilometri, con il romantico rapitore, lo sceriffo delle montagne del Rif, Mulay Achmed Mohammed el Raisuli, pretendente legittimo ma senza speranze al trono del Marocco, interpretato da Sean Connery.

E quel Teddy Roosevelt del “grande randello”, che mandò i marines a Tangeri scompaginando gli equilibri delle potenze coloniali europee, sembra un altro ispiratore di “Ciuffo biondo”.

Mi chiedo quanto serva cercare di penetrare il “Trump pensiero”, e se non sia invece necessario fare di necessità virtù, cercando di arginarne l’irruenza e la prepotenza.

E così sembra si stiano muovendo i leader degli Stati colpiti da questa prima ondata di dazi.

Partendo dal Canada, il Primo Ministro in uscita Justin Trudeau aveva annunciato che da martedì 4 febbraio il suo Paese – in risposta alle tariffe decise da Trump – avrebbe imposto nel giro di un mese «dazi doganali del 25 per cento sui prodotti americani per un totale di 155 miliardi di dollari canadesi», equivalenti a circa 100 miliardi di euro.

Trudeau ha fatto capire che i dazi non colpiranno alla cieca, ma saranno indirizzati ad esempio sulle auto Tesla (quelle prodotto da Elon Musk), ed in particolare su merci prodotte in special modo negli Stati Usa a maggioranza repubblicana.

La presidente del Messico, Claudia Sheinbaum, aveva ordinato al Ministero dell’Economia di far scattare una risposta che «comprenda dazi e altre misure di rappresaglia», puntualizzando su X: «Respingiamo categoricamente la calunnia della Casa Bianca che accusa il governo messicano di avere alleanze con organizzazioni criminali. Se alleanze esistono da qualche parte, sono nei produttori degli Stati Uniti che vendono potenti armi ai gruppi criminali».

Ha poi sottolineato che se l’amministrazione Trump fosse seria nel «combattere la droga, lo farebbe fermando la vendita nelle strade delle sue grandi città, cosa che invece non fa”.

Va comunque detto che i nuovi dazi potrebbero avere un forte impatto sul Messico, considerato che circa il 40 per cento del suo prodotto interno lordo (PIL) deriva dalle esportazioni, la parte più significativa verso gli Stati Uniti.

La novità è che eri pomeriggio/sera è stata diffusa la notizia che Donald Trump ha accettato di sospendere per un mese i nuovi dazi sul Messico e sul Canada, dopo che questi ultimi hanno accettato di rafforzare con uomini e mezzi i confini con gli Usa, per arginare il flusso di droghe illegali, in particolare il fentanyl, e l’ingresso di clandestini. 

Le reazioni della Cina, forse per la minore intensità dei dazi (per ora al 10%) rispetto a quelli annunciati contro Messico e Canada, potrebbe sembrare più pacata, più misurata.

Il motivo sta probabilmente nel fatto che la seconda economia mondiale è alle prese con una fase ormai piuttosto lunga di crescita relativamente fiacca, e secondo le stime di Bloomberg Economics gli ulteriori dazi del 10% sui prodotti made in China si potrebbe tradurre in un crollo del 40% delle esportazioni cinesi negli Stati Uniti, con un impatto misurabile in quasi un punto di Pil (0,9%).

Sono filtrate comunque ipotesi di “ritorsioni” di Pechino quali la vendita in massa  dei Bond Usa (a fine 2024 la Cina ne deteneva per 768 miliardi), e una stretta sulle terre rare, ma l’orientamento prevalente sembra al momento orientato verso un “confronto dialogico” con Trump.

Che, viste le decisioni di ieri, sembrerebbe voler applicare la regola: prima ti metto i dazi, poi tratto, e se fai quello che dico, o mi dai quello che chiedo, torno indietro.

Una volta l’avremmo chiamata “diplomazia del ricatto”, ma tant’è, forse bisognerà farci l’abitudine.

Lo so cosa state pensando.  Quando tocca a noi europei?

Stando alle voci, sembra del 1° aprile.

Tenete presente che la posta in gioco è alta, perché le nostre relazioni economiche con gli Usa sono le più grandi al mondo, circa 1,5 trilioni di euro, pari al 30% del commercio mondiale.

Inutile che vi ripeta che la trattativa dovrebbe essere “europea”, perché Trump metterà sul tavolo temi come l’acquisto di gas liquefatto Usa, tassazione delle multinazionali, spese per la difesa, trasferimenti di tecnologie, la Groenlandia….; ma purtroppo alcune di queste problematiche sono legate a decisioni nazionali.

Il difficile sarà tenere insieme gli interessi della Ue con quelli delle singole Capitali europee.

E se qualcuno pensa al prosecco, al culatello, o al parmigiano, sappia che rompendo il fronte, che è poi quello che vuole Trump, l’Europa ne uscirà stritolata, e a quel punto saremmo veramente “Stati vassalli” degli Stati Uniti. 

Umberto Baldo

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