3 Febbraio 2025 - 9.30

La “Costituzione più bella del mondo” e l’affaire Santanché

Umberto Baldo

Quando sento qualcuno sostenere che la nostra “è la Costituzione più bella del mondo”, l’unica mia reazione è ormai la compassione.

Sia chiaro che non sentirete mai un Costituzionalista sbilanciarsi in affermazioni del genere, perché uno studioso sa che le Costituzioni sono espressioni del contesto storico, sociale e politico in cui vengono scritte. 

Certo se ci riferiamo ai cosiddetti “principi fondamentali” (nella nostra Carta i primi 12 articoli), e parlo della sovranità popolare, dei diritti inviolabili, della solidarietà e dell’uguaglianza, è evidente che gli stessi costituiscono l’ossatura della Costituzione, e cambiarli vorrebbe dire stravolgere la nostra democrazia.

Toccare i principi è sempre rischioso, e guardate che non è un caso se nessuno ha finora mai modificato l’art. 3 che recita “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali..”.  Sì, avete letto bene, è scritto proprio razza, e gli estensori erano tutto fuorché fascisti!

E’ così per tutte le Costituzioni, che sono strumenti pensati per garantire stabilità e continuità, ma con l’avvertenza che nessuna Carta costituzionale può essere immutabile. 

Il perché balza agli occhi; la società evolve, nascono nuove sfide e nuovi diritti, e cambiano le sensibilità collettive. 

Per questo motivo è previsto che anche la nostra Carta fondamentale possa essere modificata, sia pure con un processo lungo e complesso, e questo forse anche ci sta, per garantire stabilità e protezione dai cambiamenti impulsivi.

Fra le cose non previste nella nostra Costituzione, e che con il passare dei decenni si sta rivelando una vera e propria lacuna, è l’impossibilità per il Presidente del Consiglio di revocare un Ministro del proprio Governo. 

Tenete sempre presente che questo tipo di “lacune” non dimostrano incompetenza o improvvisazione da parte dei “Padri Costituenti” i quali, come tutti, erano anch’essi figli del loro tempo.

Si era appena usciti dal “ventennio”, era ancora vivo il ricordo verticistico dell’ordinamento imposto dal regime, ed i costituenti scelsero quindi di non prevedere la revoca dei ministri per garantire la collegialità del Governo, evitare un eccessivo potere del Presidente del Consiglio, e mantenere il ruolo centrale del Parlamento.

Ecco così spiegato l’art. 92 che recita: “Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”.

Non è così per altre Costituzioni, maturate in altri contesti; tipo quella francese, che prevede che il Presidente della Repubblica nomini e revochi i ministri su proposta del Primo Ministro, o quella degli Usa dove il Presidente può revocare i Segretari di Stato (ministri) a sua discrezione, senza bisogno del Congresso, analogamente a quanto consentito in Inghilterra al Primo Ministro.

E’ chiaro che, dopo ottant’anni, diventa incomprensibile l’impossibilità per il Premier italiano di mandare a casa un Ministro che, per qualsivoglia motivo, non risulti più idoneo ad occupare il ruolo. 

Ma se un Ministro costituzionalmente non può essere revocato dal Premier, come può essere costretto a terminare anticipatamente il suo incarico? 

Come accennato, si tratta di un problema su cui si sono soffermati in molti, sia del mondo politico che del mondo accademico, ma che formalmente rimane irrisolto.

Formalmente, perché come spesso succede nella prassi, si è trovato un escamotage, nel senso che con il tempo si è istituzionalizzata (art. 115 Regolamento della Camera) la possibilità di chiedere le dimissioni di “un singolo Ministro”.

Legislatura dopo legislatura la richiesta di dimissioni si è impennata nei numeri, ma ad oggi  Filippo Mancuso, ministro della giustizia sotto il governo Dini, rimane l’unico ministro della storia repubblicana ad essere stato sfiduciato dal Parlamento (nel 1995).

Il perché è intuitivo.  È evidente che in un contesto politico sempre più caldo e instabile, deputati e senatori dell’opposizione si sentano quasi in dovere di mettere il bastone fra le ruote dei Ministri, presentando mozioni di sfiducia nei loro confronti. E che quelli della maggioranza facciano solitamente quadrato per difendere il Ministro sotto attacco.

Questo da un lato ci ha abituato a un dibattito politico acceso, dall’altro ci conferma la difficoltà, per quanto comprensibile, da parte dell’opposizione di portare a termine le proprie battaglie. 

Quindi, nonostante nel tempo abbiamo visto un po’ di tutto, da scandali giudiziari a casi mediatici, le “dimissioni”, forzose o meno che siano, rimangono di fatto l’unico modo per far terminare in anticipo l’incarico di un Ministro.

Immagino abbiate capito che vi ho intrattenuto su questa problematica perché di stretta attualità, con il caso  Daniela Santanchè, relativamente alla quale il 10 febbraio il Senato discuterà la mozione di sfiducia presentata dal M5S.

Il Ministro non è in discussione per attività inerenti il proprio ruolo ministeriale, bensì, come immagino avrete letto, per vicende personali legate ad attività imprenditoriali finite sotto la lente della Magistratura.

Non aspettatevi che mi metta a disquisire, o peggio esprimere giudizi, sui comportamenti tenuti dal Ministro.

Come giusto saranno i Magistrati e valutarle, e poi vale sempre il principio che chiunque è innocente fino alla fine dall’iter processuale.

Ma, come vi ho detto altre volte, un conto sono il diritto e la giustizia, un conto la politica.

Ed in politica, piaccia o non piaccia, vale il famoso principio della “moglie di Cesare”, per cui è comprensibile l’imbarazzo della premier Giorgia Meloni, che dopo un rinvio a giudizio, probabilmente gradirebbe un “passo indietro” della Santanchè.

Imbarazzo che, quasi sicuramente, visto il carattere decisionista della Meloni, viene da lei percepito come “impotenza”.

Anche perché, quello che ha ottenuto senza particolari problemi da Gennaro Sangiuliano, da Vittorio Sgarbi e da Augusta Montaruli, vale a dire le dimissioni dai loro incarichi di Governo, sembra impossibile da ottenere dalla Santanchè.

E vi siete chiesti perché lo stesso ex cognato Francesco Lollobrigida, dopo l’affaire del treno fermato a Ciampino, è quasi assente dalla prima linea mediatica della destra? 

Il problema apparente è che la nostra Premier per la prima volta si trova di fronte  un’altra donna dotata di una personalità e di un ego fortissimi, che non mostra alcuna intenzione di “mollare”, nonostante l‘”assordante silenzio” dei Fratelli d’Italia e dalla stessa Meloni. 

Una donna decisa a giocare la partita fino in fondo, quasi sfidando il Partito a sfiduciarla.

Il problema per la Premier è che qui non parliamo di un avviso di garanzia sul quale penso si possa discutere; qui siamo di fronte ad un rinvio a giudizio per “falso in bilancio”. 

Una specie di gong, suonato il quale senza dimissioni, chi garantisce che un eventuale ulteriore rinvio a giudizio per “truffa ai danni dell’Inps” indurrà la Santanchè a fare le valigie?

Resta il fatto che se ciò dovesse accadere, l’immagine decisionista di cui gode la Meloni verrebbe inevitabilmente scalfita. 

La vicenda, comunque la si legga, mostra chiaramente che è venuto il momento di mettere mani alla “Costituzione più bella del mondo”, consentendo al Presidente del Consiglio in carica di “revocare” un Ministro, qualora quest’ultimo  non goda più della sua fiducia, e soprattutto di quella dei cittadini.

Umberto Baldo

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