Donald Trump, i dazi e l’eterogenesi dei fini

ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP DI TVIWEB PER RIMANERE SEMPRE AGGIORNATO
Voi mi scuserete se anche oggi torno sul tema dei “dazi” di Trump.
Ma la mia insistenza deriva dal fatto che, forse non ce ne stiamo rendendo veramente conto fino in fondo, ma la Presidenza Trump segnerà veramente un “prima” ed un dopo”.
Perché comunque vada a finire, e ci auguriamo che tutto sfoci in nuovi accordi che plachino i furori di “Ciuffo biondo”, ma certe decisioni, certe iniziative, certi sgarbi, lasciano comunque un segno, e siate certi che l’atteggiamento degli altri Stati nei confronti degli Usa non saranno mai più come prima.
Certo chi ha seguito la sua campagna elettorale sapeva quali promesse e quali impegni avesse preso con gli elettori, ma almeno noi europei (e noi italiani di più) siamo abituati che un conto è quello che si racconta per prendere voti prima delle elezioni, ed un conto quello che poi si mette a terra.
Bene, adesso sappiamo che Trump fa quello che dice!
E soprattutto che non gliene importa niente di provocare rotture rispetto al passato nei rapporti con gli alleati, rischiando di dare il via ad una nuova ed inedita fase di instabilità internazionale e di incertezza economica globale.
Per essere più chiaro: chi poteva immaginare un Presidente Usa che arrivasse a rivendicare la Groenlandia ed il Canale di Panama, o spingesse con toni minacciosi il Canada a diventare un nuovo “State”?
Immagino ben pochi, ma bisognerà realizzare che per lui la relazione personale non ha importanza: quello che conta ai suoi occhi sono solo i suoi interessi e la missione che si è dato per gli Stati Uniti, quando pensa che debbano restare la prima potenza mondiale.
E credo sia importante anche rendersi conto che la seconda presidenza Trump non è assolutamente la prosecuzione della prima.
Nel 2017 il Tycoon arrivava inaspettatamente alla Casa Bianca, sicuramente impreparato al ruolo ed ai compiti che lo attendevano.
Quale tipo di democrazia abbia in mente lo si è visto nel gennaio del 2021 quando incitò i suoi seguaci ad assaltare il Congresso americano; ma negli ultimi quattro anni ha avuto tutto il tempo di prepararsi, di individuare uomini fedeli, di mettere i fila gli interventi da attuare fin da subito se rieletto.
Ed i dazi sono uno di questi, assieme all’uscita dall’Oms, dagli Accordi su clima, alle epurazioni in atto nelle Agenzie Federali, Fbi in testa, e siate certi che siamo solo all’inizio.
Seguendo la logica dei miei maestri, che mi hanno sempre insegnato che per capire la politica bisogna mettersi nella testa dei laeder, a ben guardare il “Trump pensiero” non è che sia del tutto staccato dalla realtà.
Lui pensa e dice: “Ragazzi, è tempo di finirla che ad esempio voi europei viviate bene e tranquilli, abbiate il welfare più generoso al mondo, quando a pagare il 70% dei costi delle Organizzazioni internazionali siamo noi americani (dall’Onu alla Nato). Abbiamo un nemico comune, la Cina, per cui chi ci sta ad affiancarci nello scontro si prenda la propria parte di responsabilità, e di costi, altrimenti non si meravigli se gli Usa andranno comunque avanti per la propria strada, non facendo sconti a nessuno”.
Non è che per questa “Europa dei mercanti” si tratti di parole rassicuranti, perché alla fine mettono in luce le carenze, le divisioni, le inadeguatezze politiche, della costruzione europea.
Nonostante tutto vi confesso che, pur immaginando un certo sconquasso, sono comunque sconcertato da queste prime scelte di Trump, perché sta prendendo a picconate il patrimonio di fiducia reciproca con gli alleati di sempre, fiducia fondata su principi comuni e condivisi.
La “guerra dei dazi”, anche se magari rientrerà o si ridimensionerà, sta mandando un messaggio devastante; quello che gli Stati Uniti d’America, considerata la più grande democrazia del mondo, non rispetta più i Trattati internazionali, e soprattutto non rispetta più i propri alleati.
Non insisto a caso sul termine “alleati”, perché il “trumpismo” rischia di accelerare un cambiamento epocale nella geopolitica mondiale, con il rischio di spingere l’Europa, sempre più vaso di coccio fra vasi di ferro, a guardare altrove.
Detta in altro modo, il paradosso delle sue guerre commerciali è che, nel tentativo di ridimensionare l’Unione europea, Trump potrebbe spingerla senza volerlo nelle braccia di Pechino.
Il perché balza agli occhi; qualora scattassero i dazi made in Usa, imprese e consumatori europei si rivolgerebbero a prodotti alternativi, meno costosi.
E chi è pronta a fornire questi prodotti?
Ma la Cina ovviamente, che sta vivendo fra l’altro una fase di sovra produzione, con un mercato interno non in grado di assorbire tutti i beni prodotti.
Sarebbe cioè il segnale di “liberi tutti”.
Inutile dire che il resto del mondo sta a guardare gli eventi, mentre Vladimir Putin prende appunti, magari per nuove avventure in Europa, e Xi Jinping si sta sfregando le mani.
Io voglio per una volta essere realista ed anche un poco ottimista.
Nel senso che, visto l’approccio con il Messico ed il Canada, mi auguro che Trump si serva dei dazi sì come una “clava”, ma finalizzata ad aprire una trattativa, magari sbilanciata a proprio favore, ma pur sempre una trattativa.
E spero che magari qualcuno gli abbia fatto rileggere qualche pagina di storia recente, che proprio in tema di dazi mostra l’effetto della cosiddetta eterogenesi dei fini.
Mi riferisco al Tariff Act del 1930, comunemente noto come Smoot-Hawley Tariff Act, una legge che attuò politiche commerciali protezionistiche da parte degli Usa.
Il periodo era sicuramente diverso, in quanto eravamo all’inizio della Grande Depressione del 1929.
Non attardandosi in grandi approfondimenti, basti dire che in quella situazione tragica,l’America pensò di poter vincere la Grande Crisi chiudendosi a riccio.
Gli artefici furono Reed Smoot, un repubblicano dello Utah Presidente della Commissione Finanze del Senato, e Willis C. Hawley, anch’egli repubblicano dell’Oregon, Presidente della Commissione della Camera sui Modi e i Mezzi.
Durante le elezioni presidenziali del 1928 una delle promesse di Herbert Hoover, che poi quelle elezioni le vinse, fu quella di aiutare gli agricoltori assediati aumentando i dazi sui prodotti agricoli.
A rafforzare e realizzare questa promessa contribuirono i due senatori, Reed Smoot e Willis C. Hawley, che convinsero il Congresso che sarebbe bastato alzare i dazi su ventimila prodotti per salvare i farmers dell’Iowa e i manovali di Detroit
Vi risparmio lo sviluppo nel tempo di questa legge; basti dire che fu come curare un’influenza con la stricnina.
Non a caso ieri ho scritto che le guerre dai dazi sono facili da iniziare, difficili da vincere, e impossibili da controllare quanto agli effetti.
E così fu con lo Smoot-Hawley Act; che determinò la diminuzione delle importazioni statunitensi del 66% (da 4,4 miliardi di dollari nel1929, a 1,5 miliardi di dollari nel1933), e quella delle esportazioni del 61% (da 5,4 miliardi di dollari a 2,1 miliardi di dollari). In generale il Pil degli Usa scese da 103,1 miliardi di dollari nel 1929 a 75,8 miliardi di dollari nel 1931, e toccò il fondo a 55,6 miliardi di dollari nel 1933. Le importazioni dall’Europa diminuirono da un massimo del 1929 di 1,3 miliardi di dollari a soli 390 milioni di dollari nel 1932, e le esportazioni statunitensi verso l’Europa diminuirono dai 2,3 miliardi di dollari nel 1929 a 784 milioni di dollari nel 1932.
Nel complesso il commercio mondiale diminuì di circa il 66% tra il 1929 ed il 1934.
Certo, lo so che erano gli anni successivi al 1929, appunto quelli della Grande Depressione, che fortunatamente non hanno nulla a che vedere con gli anni che stiamo vivendo, ma come vi dico spesso ogni tanto andare a rileggersi un po’ di storia non farebbe male neppure ai politici.
Magari non sarà “magistra vitae” come sosteneva Cicerone, ma qualcosa da imparare c’è sempre.