2 Agosto 2022 - 10.31

Venti di guerra dai Balcani

Lo scorso 13 aprile sul mio blog pubblicai un pezzo dal titolo “S’ì fossi Putin arderei ‘l mondo”, in cui scrivevo testualmente:  “Se io fossi Vladimir Putin, e volessi continuare il mio scontro di “civiltà” con l’Occidente, dopo quello ucraino quale fronte aprirei?  Qual’ è l’area dell’Europa in cui la Russia potrebbe inserirsi per rompere equilibri precari, per non dire al limite della rottura?” 

E così mi rispondevo: “A mio avviso ce n’è una sola: i Balcani.  La regione dei Balcani occidentali, attualmente divisa fra Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Albania, rappresenta uno spazio geopolitico dove si intersecano, si sovrappongono e si confrontano le agende politiche e gli interessi economici di una pluralità di attori internazionali, tanto “occidentali”, come l’Unione Europea, gli Usa e la Nato, quanto “orientali”, quali appunto la Russia, la Turchia, le Monarchie del Golfo e, ultima arrivata ma non meno rilevante, la Cina”. 

Spiace dover dire “avevo ragione” quando in ballo c’è una possibile guerra, ma evidentemente anche lo zio Vladimir osserva con attenzione l’area balcanica, soffiando su un fuoco che cova sotto la cenere, e che non si è mai estinto dopo l’implosione della ex Jugoslavia.

Così mentre noi siamo concentrati su una campagna elettorale agostana che, per certi versi assume i toni del grottesco, al confine fra Serbia e Kosovo nei giorni scorsi si sono cominciati a sentire gli echi dei primi colpi di kalashnikov contro la polizia kosovara (sparati almeno ufficialmente non si sa da chi, nel senso che si trattava di gente incappucciata).

Forse a qualcuno di voi lettori sfugge la situazione, per cui ritengo opportuno richiamarla, sia pure a volo d’uccello.

Nel 2008 il Kosovo proclamò la propria indipendenza dalla Serbia, che si rifiutò di riconoscere  il nuovo Stato perché considerava questa una provincia usurpata, e la frontiera la chiama  ancora “linea amministrativa”.

Non si tratta di una normale  “querelle” fra uno Stato ed una sua provincia che ha deciso di farsi Stato, perché ci sono in ballo questioni etnico religiose, in quanto la Serbia vede nel Kosovo la culla della propria storia nazionale e religiosa, e in Mosca la «grande madre» del mondo slavo-ortodosso.

Il Kosovo dal punto di vista territoriale è poca cosa, essendo più piccolo del Trentino Alto Adige, e la sua popolazione è di circa 1,8 milioni di abitanti.

Ma il problema è che soprattutto il nord del Paese è abitato da persone di etnia serba, che non si sentono kosovari, e che non riconoscono lo Stato di cui sono (meglio dovrebbero essere) cittadini.

E non nascondono questo loro rifiuto, tanto che continuano a mantenere sulle loro auto le targhe serbe, e a non avere i documenti kosovari.

Fino ad ora i rapporti con queste comunità kosovare filo serbe sono stati gestiti in modo a dir poco kafkiano.

Relativamente alle targhe automobilistiche  fino ad oggi si è applicato il metodo degli adesivi: se si va in Serbia con targa kosovara, al valico si è obbligati a coprire i segni distintivi del Kosovo, e lo stesso avviene per chi arriva dalla Serbia.

Analogamente per ciò che attiene i documenti di identità provvisori, rilasciati a chi attraversa la frontiera tra i due Paesi che non si riconoscono.

È evidente che si tratta di  burocrazia pura, ma quando il nervo è scoperto, in un crogiolo etnico-religioso, anch’essa diventa sinonimo di Patria e Indipendenza.

Si trattasse solo di questo, si potrebbe anche sorridere affermando che in fondo si tratta di folklore.

Ma purtroppo non così, e l’Ucraina ne costituisce la drammatica dimostrazione. Perché c’è un innegabile parallelismo fra i separatisti filo russi del Dombass, la difesa dei diritti all’autodeterminazione dei quali è stata la giustificazione di Putin per la sua “operazione speciale”, e la questione dei kosovari del nord, filo serbi per lingua, tradizione e sentimenti religiosi.

Ed infatti è bastata la decisione di Pristina, capitale del Kosovo, di vietare il riconoscimento dei documenti e delle targhe automobilistiche serbe (per i propri cittadini eh!) perché si arrivasse immediatamente alle barricate per le strade, e anche ai colpi d’arma da fuoco.

Un copione abbastanza consueto nei Balcani negli ultimi decenni, ma che oggi, con una guerra aperta in Europa, se non controllato adeguatamente e con decisione rischia di innescarne un’altra.

Perché è lo scacchiere in cui si svolgono questi fatti ed essere estremamente pericoloso.

Perché abbiamo una Serbia filo russa, cui si contrappone un Kosovo fortemente legato alla Nato.

Non è un mistero, tanto per dirne una, che da mesi l’Inghilterra sta addestrando i militari kosovari, che hanno già partecipato a dimostrazioni sul campo dell’alleanza atlantica.

E Putin in tutto questo che fa?

Osserva con attenzione!

Perché in realtà lo Zar  non avrebbe neppure bisogno di soffiare ulteriormente sul fuoco, vista una situazione in cui il premier kosovaro Albin Kurti prevede settimane «molto problematiche»,  e il presidente serbo Aleksander Vucic intima a Pristina un drastico altolà. «Se maltratteranno e uccideranno i nostri fratelli, la Serbia vincerà».

I russi si limitano a dire che “tutti i diritti dei serbi in Kosovo devono essere rispettati”, e direi che come messaggio basta e avanza.

Formalmente stiamo parlando di targhe e o passaporti, ma le ragioni del contendere vanno ovviamente ben oltre, e affondano le radici nella guerra che 23 anni fa spinse la Nato a bombardare la Serbia e ad appoggiare i ribelli albanesi dell’Uck in lotta per l’indipendenza.

Avete mai sentito parlare del Kosovo e dei Balcani in questi giorni di campagna elettorale?

Giammai, perché i nostri Demostene sono impegnati allo stremo nella compilazione delle liste e a scazzarsi fra di loro!

Eppure dovrebbero sapere che dal 2018 un contingente italiano inserito nella forza internazionale Kfor a guida Nato,  composto da 638 militari, 230 mezzi terrestri ed un aereo sono stabilmente in Kosovo (fra l’altro si tratta del contingente più rilevante della missione Kfor).

Qualcuno da Roma dirà loro come comportarsi qualora le cose dovessero precipitare in un conflitto armato?

Resta la domanda che pongo da sempre: Quando l’Unione Europea deciderà di avere una propria e indipendente politica estera, sganciata da quella americana,  però supportata anche da una politica di difesa comune?

Perché, al di là delle chiacchiere, non prendere posizioni nette, o stare a guardare in attesa degli eventi, rischia di far crollare un assetto geopolitico mondiale sempre più precario, e noi europei in particolare due guerre alle porte non ce le possiamo proprio permettere.

E non occorre essere dei Metternich per capirlo.

Tanto più la seconda sarebbe a 600 km dai nostri confini terrestri, qualche ora di autostrada, e noi questa volta ci saremmo coinvolti fin da subito.

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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