10 Giugno 2025 - 8.28

Referendum:  scappatoia e teatrino di politici che non vogliono decidere

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Al di là dell’inutile tentativo dei promotori di valorizzare i quasi 15 milioni di cittadini che sono andati a votare per i Referendum, (un rispettabile 30% che, al di là dalle battute, non costituisce certo un avviso di sfratto alla Meloni)  resta il fatto che il 70% degli aventi diritto non è andato a votare.

E questo è l’unico fatto che veramente conta, e che relativizza tutti i ragionamenti possibili.

Io sono da sempre attento ai numeri, e poiché in Italia i lavoratori dipendenti sono circa 26,6 milioni, constato che neanche coloro che secondo Landini avrebbero dovuto essere interessati ad abbattere il Job Act hanno deciso di andare a votare (ammesso e non concesso che i 15 milioni di votanti siano stati solo lavoratori dipendenti).

Nonostante tutto, sentendo i commenti “a caldo”, c’è chi ha visto nei quasi 15 milioni di votanti al Referendum una riscossa popolare. 

Ma a onor del vero c’è anche chi, con un briciolo di onestà intellettuale, come da me sottolineato, nota che il dato davvero clamoroso è l’altro: quel 70% degli italiani che ha disertato le urne. 

Settanta per cento. Un’assenza di massa. Un’assenza che pesa più di qualsiasi “presenza” politicizzata.

E alle affermazioni di Maurizio Landini, il vero dominus dei Referendum, secondo cui che c’è “crisi democratica” perché gli italiani non hanno votato, viene spontaneo rispondere che l’elettorato non necessariamente di sinistra sicuramente non è andato alle urne proprio perché il Referendum è stato politicizzato, ed ha capito che si trattava dell’ennesima chiamata alle armi sotto bandiera ideologica, più utile ai leader sindacali che ai lavoratori stessi.

Perché, scusate se mi ripeto ma lo ritengo importante, se c’è una cosa che i numeri sanno fare bene, è smascherare le illusioni. 

In Italia ci sono circa 26,6 milioni di lavoratori dipendenti. Eppure, nonostante l’intero pacchetto referendario fosse costruito attorno ai loro diritti, molti di loro hanno voltato le spalle alle urne. Altro che crisi democratica: qui siamo di fronte a una crisi di credibilità.

Non ci si può appellare al popolo un giorno, e il giorno dopo accusarlo di apatia solo perché non si allinea alle proprie strategie. 

Chi non è andato a votare ha espresso, con il silenzio, un dissenso chiaro: non si fida di chi politicizza i diritti. 

E forse nemmeno crede più che oggi sia il Sindacato a poterglieli restituire.

Il vero segnale lanciato da questo Referendum non è una minaccia per il Governo Meloni — che anzi ne esce piuttosto indenne — ma uno schiaffo all’illusione che basti sventolare un pugno chiuso per rianimare la partecipazione popolare.

Quindici milioni hanno votato? Bene. Ma più del doppiohanno detto: “No, grazie!”. E questo, piaccia o no, è l’unico verdetto che conta.

Non mi addentro poi sulle analisi della “debacle” o meno del Campo Largo, perché ormai è come la “Fiaba del Sior Intento”, che sembra appassionare solo Elly Schlein.

Ma poiché ci definiamo esseri senzienti e ragionanti, credo sia ormai inevitabile affrontare i problemi dell’Istituto referendario.

A partire dalla constatazione che il panorama politico italiano è profondamente cambiato da quando venne stilato l’art. 75 della Costituzione (ricordo “la più bella del mondo” sic!), e si presenta più frammentato e meno mobilitante.

In altre parole voglio dire che sono passati i tempi in cui le ideologie erano più forti e divisive, e di conseguenza ogni Referendum diventava quasi sempre una lotta all’ultimo sangue fra le due grandi chiese politiche dell’epoca; la Democrazia Cristiana ed il Partito Comunista.

Quelli erano Partiti veramente in grado di mobilitare la società, le grandi masse di cittadini, che vedevano nel voto un’arma da brandire contro l’avversario politico.

Ma oltre ai Partiti, allora erano ben più presenti ed attivi anche i cosiddetti “Corpi Intermedi”, i Sindacati, le Associazioni e così via, che contribuivano anch’essi a polarizzare l’elettorato per sostenere un’elezione o un referendum.

Chi ha qualche primavera sulle spalle ricorda sicuramente quando negli anni Settanta si votò per il divorzio, negli anni Ottanta per l’aborto, nel 1987 per il nucleare, temi sentiti dagli italiani come in grado di condizionare il futuro.

Dagli anni Novanta il clima è decisamente cambiato: il referendum sulla caccia è stato il primo a fallire, poi hanno fallito quelli sulla privatizzazione della Rai, sulle carriere dei Magistrati, sull’art. 18, sulla legge elettorale e via con Cristo.

Ad aggravare il quadro anche il fatto che qualche Referendum approvato venne poi aggirato e vanificato dal Parlamento con apposite leggi. 

Non va poi trascurato che da quegli anni si è consolidata la prassi politica che mira a fare fallire i Referendum (ricordate l’ “andate al mare”?).

Non è una prassi buttata là.  Risponde ad un ragionamento e ad una logica ben precisi. 

In pratica un Partito che è contrario ad una proposta referendaria, invita i propri elettori a non votare, invece che andare a votare “No”. 

Questa strategia, che si è rivelata molto efficace, sfrutta proprio la regola del quorum: se non si raggiunge il 50% dei votanti il referendum è automaticamente nullo, indipendente dei risultati delle urne. 

Questo è successo anche stavolta, ed ecco perché sarebbe opportuno ragionare un po’ sul fatto che, allo strucco, questo rifiuto, che non è il primo, a ben guardare non è la sconfitta del cosiddetto centrosinistra o la vittoria del cosiddetto centrodestra. È la sconfitta di una politica che da decenni non è più politica, e di una classe dirigente che non sa più decidere su temi cruciali per i cittadini, tipo il fine vita per fare un solo esempio.

Ragionare quindi, partendo dalla realtà dell’oggi; ancora un referendum, ancora un fallimento. 

Ormai è un copione grottesco: si spendono milioni, si mobilitano (si fa per dire) istituzioni e media, si aprono i seggi… e poi? 

Il deserto. L’affluenza resta sotto il quorum, le urne semi vuote, la democrazia, quella evocata a ogni piè sospinto, ridotta a una farsa.

Ma per quanto tempo dobbiamo ancora fingere che questo strumento funzioni?

La verità è sotto gli occhi di tutti, anche se pochi hanno il coraggio di dirla: il Referendum, oggi, è uno strumento logoro, inutile, ipocrita.

E non perché gli italiani siano pigri o superficiali, ma perché hanno capito che serve solo a legittimare piccoli giochi di potere, a dare un po’ di visibilità a Partiti in crisi di identità, o a politici in cerca di un titolo sui giornali.

Ma a chi interessa davvero il contenuto del referendum? A nessuno, e infatti nessuno lo spiega. I quesiti sono scritti in burocratese, le campagne informative inesistenti, le TV parlano d’altro. 

E di fronte a tutto ciò il cittadino comune fa l’unica cosa sensata: se ne va al mare.

Perché così com’è il Referendum è diventato una truffa democratica. 

Non dà voce al popolo, non cambia le cose, non produce leggi. 

È una cartolina sbiadita di un passato che non c’è più, usata per fare finta che esista ancora un rapporto diretto tra cittadini e istituzioni.

E intanto, si spendono soldi pubblici, si tengono aperti seggi vuoti, si pagano presidenti e scrutatori per contare schede fantasma. 

Tutto per far contenti due o tre Segretari di partito e una manciata di editorialisti che continueranno a ripetere, come un mantra vuoto, che “la partecipazione è il sale della democrazia”.

No. Il sale della democrazia è il rispetto per l’intelligenza dei cittadini.

E prenderli in giro con strumenti che non funzionano è solo un modo elegante per svuotare la Repubblica dalle sue fondamenta.

O si cambia, o si chiude. Ma almeno, smettiamola con l’ipocrisia!

Umberto Baldo

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