9 Maggio 2025 - 9.33

Populismo ed evasione fiscale. Tra sopravvivenza ed ipocrisia di Stato

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Umberto Baldo

Nella vita di ciascuno di noi ci sono fatti, magari anche piccoli, che si ricordano a distanza di decenni, perché spesso ti hanno insegnato qualcosa.

Ricordo che una cinquantina di anni fa anni (solo a scriverlo mi viene l’angoscia) mi trovavo in quel di Taranto. Per quanto a quei tempi fosse un viaggio allucinante, ci andavo ogni anno per fare visita ad una zia, veneta ovviamente, che si era accasata in Puglia.

Per farla breve io gli zii un giorno stavamo passeggiando sul lungomare cittadino di Taranto, e ricordo che vidi una marea di piccoli banchetti, poco più che sgabelli, su cui uomini o donne avevano posto stecche di sigarette, ovviamente di contrabbando, ed aspettavano clienti. 

La cosa che mi colpì veramente è che ad certo punto vidi un finanziere in divisa avvicinarsi ad uno di quei “punti vendita” improvvisati, e con nonchalance acquistare una stecca di “bionde”.   Come fosse la cosa più naturale e legittima al mondo!

Ebbi una reazione spontanea di stupore, alla quale mio zio rispose: “Nipote (mi chiamava così), ma se a quella persona togli i soldi che raggranella vendendo sigarette di contrabbando per tirare avanti la famiglia, cosà gli resta da fare? Andare a fare rapine o furti?  Lo Stato lo sa, e quindi chiude un occhio, anzi li chiude tutti e due”.

Va da sé che si trattava di un’altra Italia, sicuramente più povera di quella attuale, la Puglia di allora non era certamente quella di adesso, e tutto sommato, pur non assolvendo del tutto il fenomeno, capii che quei “banchetti” erano una forma di “evasione di necessità”, quasi di sopravvivenza.

Ma nell’Italia di oggi quel tipo di ragionamento a mio avviso non sta più in piedi.

Perché si evadono (parliamo di stime, perché in realtà il dato vero a mio avviso non lo sa nessuno) bellamente dagli 80 ai 100 miliardi l’anno, e a farlo non sono più dei disperati, semplicemente perché ormai si tratta di un fenomeno strutturale tollerato, se non favorito dallo Stato.

Ragazzi non raccontiamoci balle!

Nei giorni scorsi abbiamo parlato di “populismo”, e a mio avviso proprio il populismo della nostra classe politica trova una delle sue più eclatanti concretizzazioni nel fenomeno dell’evasione tributaria. 

Il dibattito sull’evasione fiscale in Italia si ripropone ciclicamente, spesso in concomitanza con le leggi di bilancio, o con i momenti di crisi economica. 

Tuttavia, raramente si affronta il tema per quello che è davvero: non solo un problema di legalità, ma anche una realtà strutturale del nostro sistema socio-economico.

Lo so che i nostri Demostene non lo ammetteranno mai, visto che vogliono farci credere che  “aaa Naaaazzzziiiiooone” macina record su record, e che non ha nulla da imparare da altri Stati.

Mal’economia sommersa, perché di questo si tratta (stimata intorno al 12-15% del PIL nazionale) è una realtà sfaccettata, per quanto composta in larga parte da attività lavorative che non registrano gli incassi. 

Certo ci sono  molti casi  di evasione “di lusso” o di frodi organizzate; ci sono altresì intere categorie del lavoro autonomo per così dire “allergiche a fatturare” (non occorre che ve le dettagli perché sono tutti casi che conoscete)

Ma c’è anche un’evasione che io definirei disemplice sopravvivenza: lavoretti pagati in contanti, piccole imprese che non ce la fanno a sostenere il carico fiscale e contributivo, famiglie che arrotondano con attività informali.

Questa parte nascosta dell’economia agisce, di fatto, comeun ammortizzatore sociale informale, soprattutto in contesti dove lo Stato è debole o assente (non è però, quantitativamente parlando, il grosso del fenomeno). Per molte persone, è l’unico modo per andare avanti, soprattutto nei momenti in cui il lavoro regolare è insufficiente o inesistente.

Diverso il discorso relativamente all’evasione cronica di alcune categorie; perché si tratta di scelte politiche, in quanto sono considerate vicine a certi Partiti, e guarda caso sono anche quelle rispetto alle quali, oltre che tollerare la sottrazione di risorse per la comunità, si è anche prodighi di condoni, in nome di fantomatiche “paci sociali”.

Condoni che fra l’altro non servono a nulla visto che i controlli sono molti evanescenti, e di conseguenza val la pena far finta di niente e rischiare.

Ecco spiegato il motivo per cui non si affronta seriamente la questione.

Perché anche per l’evasione fiscale la risposta è politica: l’economia sommersa rappresenta un equilibrio silenzioso. 

Smantellarla significherebbe far emergere numeri drammatici sulla disoccupazione reale, esporre migliaia di famiglie alla povertà, e destabilizzare territori già fragili.

C’è una parte del Paese che lavora “in nero”, che vive di contanti, che non fattura, che non registra, che si arrangia. Non sono criminali. Sono persone normali (qualcuno sopravvive, ma la maggioranza ci marcia).  E sono milioni. Dal Sud agricolo alla provincia del nostro Nord-Est, dalle badanti agli idraulici, dai baristi agli ambulanti: un’economia parallela, tollerata, conosciuta, indispensabile.

E qui scatta l’ipocrisia dei nostri Demostene!

Lo Stato agisce con ambivalenza. Da un lato introduce strumenti tecnologici (fatturazione elettronica, tracciabilità, incroci di dati), dall’altro evita di toccare i nodi strutturali: semplificazione fiscale, riduzione del cuneo contributivo, incentivo al lavoro regolare. 

La repressione selettiva colpisce solo chi è dentro il sistema, mentre il sommerso resta spesso intatto.

In pratica lo Stato fa la voce grossa solo con chi non può difendersi: lavoratori dipendenti e pensionati. Per loro non sfugge niente. Tutto tracciato. Tutto tassato. Tutto in regola. E tutto sulle loro spalle. 

Sono loro che finanziano la sanità, la scuola, la giustizia, i bonus, le pensioni minime. 

Mentre altri si tengono il contante in tasca.

La vera sfida non è solo punire, ma riportare alla luce ciò che oggi vive nell’ombra, offrendo alternative sostenibili, semplificando il quadro normativo, e soprattutto ricostruendo un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni. 

Perché finché lo Stato sarà percepito come distante, inefficiente o vessatorio, l’evasione continuerà a essere vista non come un reato, bensì come una forma di autodifesa (oltre che la quintessenza della furbizia). 

E la politica, che vive di consenso, preferisce non irritare troppo chi evade. 

Anche perché molti di quegli elettori, artigiani, commercianti, lavoratori autonomi, continueranno a votare per chi di fatto gli consente di non pagare le tasse.

Badate bene che non assolvo nessuno, nemmeno la sinistra, perché ha governato per decenni limitandosi di fatto alla grida manzoniane.

Chi paga il prezzo di tutto questo? 

Come ho scritto sopra, sempre gli stessi, i soliti noti: i lavoratori dipendenti e i pensionati, quelli che non possono evadere nemmeno volendo. 

A loro (ma soprattutto ai kulaki che dichiarano da 35.000 euro in su)  si chiede di sostenere tutto il peso del welfare, della sanità, delle scuole e del debito pubblico, mentre milioni di euro continuano a girare nell’ombra, protetti da un patto silenzioso tra chi evade e chi governa.

Resto sempre dell’idea che basterebbe mandare a Natale qualche finanziere negli alberghi di Cortina, o in agosto a Porto Cervo, semplicemente per verificare se certe spese e tenori di vita sono compatibili con le dichiarazioni dei redditi.  Applicando la regola latina “Unum castigabis, centum emendabis”, vale a dire “punirne uno per educarne cento”!

Non succederà, state tranquilli. Perché a Lor Signori, populisti d’accatto, va bene così.

Umberto Baldo

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