3 Luglio 2025 - 9.56

Pechino vuole reincarnarsi… nel Dalai Lama

ISCRIVITI AL CANALE WHATSAPP DI TVIWEB PER RIMANERE SEMPRE AGGIORNATO

CLICCA QUI.

Umberto Baldo

Che il potere politico cerchi di mettere il becco negli affari religiosi non è esattamente una novità. In Europa ci abbiamo fatto le ossa: dai contrasti medioevali per le investiture, all’arte sopraffina di eleggere Papi “graditi” alle corti. Ma poi sono arrivate le rivoluzioni, quelle vere, e con esse la secolarizzazione, la libertà religiosa, i diritti. 

Abbiamo imparato a distinguere fra Stato e Chiesa, tra sacro e profano.

In Cina no. In Cina si reincarna tutto: anche il totalitarismo.

Ai nostri occhi smaliziati, c’è qualcosa di meravigliosamente ridicolo nel fatto che il Partito Comunista Cinese, ateo, materialista, ed allergico a ogni forma di spiritualità che non sia l’adorazione di Xi Jinping, pretenda di scegliere… la reincarnazione di un santo uomo buddista.

È come se Kim Jong-un decidesse il prossimo Papa. O se Putin dichiarasse di aver ricevuto in sogno la rivelazione su chi sarà il nuovo Mahatma Gandhi.

E così, nel 2025, mentre noi ci preoccupiamo di intelligenza artificiale e cambiamento climatico, a Pechino si affannano a stabilire chi sarà il prossimo Dalai Lama. 

Avete capito bene: uno Stato comunista, ateo per costituzione, pretende di decidere chi sia  la “reincarnazione” di un capo spirituale. 

Altro che separazione dei poteri: qui siamo al controllo cosmico.

La goccia che ha fatto traboccare la coppa di tè dei Mandarini che governano a Pechino è arrivata pochi giorni fa. 

Sua Santità il XIV Dalai Lama, in esilio dal 1959, ha annunciato che il processo per la scelta del suo successore (il che vuol dire sovraintendere alla futura reincarnazione) sarà di esclusiva competenza del suo Ufficio privato (il Gaden Phodrang Trust). 

Quindi nessun ruolo per Pechino, nessun timbro del Partito, nessuna “Urna d’Oro” made in China. 

Solo tradizione tibetana.

Eppure in Cina non si scherza, e non si hanno dubbi. 

Pechino ha annunciato che sarà lo Stato, e solo lo Stato, a decidere chi sarà il prossimo Dalai Lama.

A patto, ovviamente, che il reincarnato nasca dentro i sacri confini della Repubblica Popolare, venga cresciuto a propaganda e sorveglianza, e magari dopo aver militato nelle Giovani Marmotte del Partito. 

Un piccolo Buddha, ma col distintivo rosso all’occhiello.

Il regime cinese non ha mai digerito il fatto che il Dalai Lama sia ancora oggi una figura rispettata in tutto il mondo; che un vecchio monaco in esilio, con la risata sorniona e lo sguardo gentile, conti più dei carri armati, che riesca ancora a parlare al cuore dei tibetani e, orrore!, anche a milioni di buddisti cinesi, che non risponda né al Politburo, né a Xi Jinping in persona.

Immaginate il fastidio: un uomo che non si compra, non si piega, e che non ha mai chiesto “l’integrazione” nel grande sogno cinese, il sogno, si fa per dire, dove le minoranze etniche devono farsi silenziose, grate e cinesi al 100%.

Capite bene perché in Tibet non si può nemmeno mostrare la sua immagine:  considerata dal regime più pericolosa di un missile a lungo raggio.

Ma dietro la questione spirituale c’è molto di più (https://www.tviweb.it/ombre-sulla-reincarnazione-del-dalai-lama/)

Il vero nodo è la sistematica politica di “sinizzazione” del Tibet: un progetto freddamente perseguito da Pechino per cancellare tutto ciò che non sia “cinese han”, ovvero l’etnia dominante e il pensiero unico.

Questo si traduce in persecuzioni religiose, chiusura di monasteri, arresti arbitrari, rieducazione dei monaci (un ossimoro che solo un totalitarismo può concepire), obbligo di insegnamento solo in lingua han, e trasferimenti forzati di popolazione per alterare l’equilibrio etnico.

Un vero e proprio genocidio culturale, che per molti osservatori non si ferma alla cultura, ma tocca la stessa sopravvivenza demografica del popolo tibetano.

Il Dalai Lama agli occhi di Pechino è l’ultimo ostacolo simbolico a questo disegno. 

Finché esisterà la sua figura, rappresenterà una verità che la Cina non può sopprimere con i carri armati: quella che il Tibet è un’identità etnico-culturale, non un territorio da sfruttare. 

Una coscienza, non una provincia. Una civiltà millenaria, non un’anomalia amministrativa.

Ma resta sempre quel  piccolo problema: la reincarnazione non si controlla col censimento.

Nel frattempo, India e Stati Uniti osservano con interesse. 

Delhi ospita da decenni il Dalai Lama e oltre 100.000 tibetani. Lo considera un capitale spirituale ed un jolly strategico. 

Gli USA, tra una dichiarazione e l’altra sui diritti umani, sanno benissimo che il Tibet è uno dei nervi scoperti dell’espansionismo cinese.

E se domani il nuovo Dalai Lama nascesse in India, con il placet dell’esule novantenne? 

Altro che reincarnazione. 

Sarebbe una bomba geopolitica. 

Il comunismo cinese, che voleva sradicare il buddismo tibetano, si troverebbe a inseguire fantasmi. A litigare con l’anima. A perdere una battaglia cosmica che non può vincere con i droni.

Insomma, siamo di fronte all’ennesima pretesa grottesca di un regime che vuole controllare tutto: il pensiero, la memoria, il tempo. Ora anche l’aldilà.

Ma c’è una verità semplice che né Xi Jinping né i suoi ideologi riescono a capire: l’autorità morale non si decreta, si conquista. 

E non c’è Urna d’oro, né esercito, né algoritmi, che possano sostituirla.

In conclusione, la partita del prossimo Dalai Lama sarà uno scontro tra civiltà, non tra religioni. 

Da una parte la libertà spirituale, dall’altra la colonizzazione ideologica. 

E, come spesso accade, l’Occidente sarà chiamato a scegliere: se stare dalla parte della reincarnazione autentica… o di quella con il codice QR del Partito Comunista Cinese.

Umberto Baldo

Potrebbe interessarti anche: