4 Giugno 2025 - 8.18

La guerra che non osa dire il suo nome

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Umberto Baldo

Eh ragazzi, lo so bene che preferireste vi parlassi di vacanze, di mare e montagna, ma finché i Telegiornali continueranno ad essere aperti dalle notizie provenienti da due fronti di guerra, è inutile girarci attorno; quello continua ad essere il tema su cui soffermarsi e sviluppare qualche riflessione.

Credo sia giusto partire dal constatare come, dopo il 1945, l’umanità abbia smesso di dichiarare guerre, ma non certo di farle (attualmente nel mondo sono attivi 56 conflitti, che coinvolgono più o meno direttamente 92 Paesi). 

L’aggressione armata è viva e vegeta, ma viene mascherata con espressioni rassicuranti tipo “operazione speciale”, “intervento preventivo”, “missione umanitaria”. 

Un maquillage linguistico per non urtare le anime sensibili dell’Occidente.

Non si dichiara più guerra, si invia un comunicato stampa.

Quindi, cambia il lessico, non l’essenza della questione. 

Ma questo escamotage semantico ha un effetto concreto: si aggirano le regole del diritto bellico e si evita, almeno agli occhi dell’opinione pubblica interna ed internazionale, l’ammissione di una responsabilità morale e giuridica.

Ma in fondo la sostanza è sempre la stessa: uomini che uccidono altri uomini per il controllo di territori, risorse, popoli.

Lo diceva già Tucidide, cronista lucido e spietato della guerra del Peloponneso: “La guerra è una scuola severa che rivela il vero volto degli uomini”. 

E quel volto non è cambiato. Sparta e Atene vivono ancora oggi, sotto le bandiere moderne delle democrazie liberali e delle autocrazie imperiali. 

Pensare che l’uomo contemporaneo sia “migliore” di quello dell’antichità è una favola per bambini. 

Siamo gli stessi, solo con armi più sofisticate, e ipocrisie più raffinate.

In Italia, un certo “mondo pacifista, che in realtà non appartiene solo alla sinistra, sembra cullarsi nell’illusione che basti l’articolo 11 della Costituzione a proteggerci: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. 

Frase nobile, certo. 

Ma sarebbe bene ricordare che tutti i principali costituzionalisti, da Mortati a Zagrebelsky, riconoscono che, in caso di aggressione, la difesa armata del Paese non solo è lecita, ma è un dovere.

L’equivoco nasce da una lettura ingenua della realtà umana e storica. 

Il conflitto armato non è una parentesi nella storia dell’umanità: è una costante. 

L’uomo di oggi non è molto diverso da quello che combatteva a Maratona o sotto le mura di Troia. 

È ancora fatto di passioni, di interessi, di istinti di sopraffazione. 

La diplomazia, il diritto e la cooperazione internazionale sono conquiste importanti, ma non cancellano la possibilità – anzi, la probabilità – del confronto bellico.

Ma davvero crediamo che una frase, per quanto solenne, possa proteggere una nazione? 

Come se carri armati o droni si fermassero davanti ad una carta firmata nel 1948.

La verità è che l’Italia ripudia la guerra solo in teoria. 

Nella pratica partecipa a missioni militari, invia armi, prende posizione nei conflitti. 

Fa politica estera, come è giusto che sia.   Ma lo fa con il freno a mano tirato, impaurita dal proprio stesso passato, e da un pacifismo retorico che confonde la pace con la resa.

Chi oggi parla di “dialogo a tutti i costi” davanti a un’aggressione militare, o è in malafede o non ha capito niente della storia umana. 

Atene e Sparta non sono archeologia: sono l’anima dell’uomo. 

La violenza non è un incidente di percorso; è una possibilità sempre presente nel cuore della politica. 

E quando uno Stato sovrano viene invaso, la risposta nonè un tweet di condanna o una marcia della pace. 

È, se serve, la difesa armata.

Io non sono né un guerrafondaio, né un cultore delle armi, ma faccio fatica a non chiedermi come sia possibile che ci sia qualcuno che pensi che questi scenari appartengano ad un futuro lontano.

Forse non si è accorto che la guerra è già qui!

Non ai confini dell’impero, ma dentro il nostro stesso quartiere geopolitico.

L’Ucraina combatte da oltre due anni una guerra di resistenza che non è solo sua: è anche la nostra. Perché se Mosca dovesse vincere, la lezione per tutti i despoti del mondo sarebbe chiara: l’Occidente è stanco, diviso, molle. 

E sarà solo questione di tempo prima che qualcun altro, magari a Pechino, decida di prendersi Taiwan. E poi? Il Mar Cinese? Il Pacifico? Le rotte globali del commercio?

Nel frattempo, a sud, il Mediterraneo è diventato un mare instabile, attraversato da crisi esplosive. 

La guerra in Medio Oriente, Israele, Gaza, Libano, minaccia di estendersi. 

L’Iran e i suoi proxy armati alimentano un clima da guerra regionale permanente. 

E mentre i nostri talk show parlano di tregua e di diritti umani, Hezbollah o gli Huthi affilano i missili. 

I bambini a Gaza muoiono sotto le bombe (ed è sicuramente inaccettabile); ma anche a Tel Aviv si vive nei rifugi.

E poi ci sono i Balcani, letteralmente alle nostre frontiere, che non sono mai stati del tutto pacificati. 

Il Kosovo è ancora un punto di frizione tra NATO e Serbia. 

E la Bosnia è una polveriera dormiente, dove i vecchi fantasmi etnici non sono mai scomparsi. 

Basta una scintilla, e allora vedrete i fuochi di artificio. 

Nel Sahel, l’avanzata del fondamentalismo islamico sta destabilizzando interi Stati. 

La Francia si ritira, l’Italia temporeggia, e la Russia, con i mercenari della Wagner, avanza. 

E noi ci stupiamo se poi decine di migliaia di profughi bussano alle nostre porte, portandosi dietro il caos delle loro terre?

La verità è che non siamo circondati dalla pace, ma da una cintura di instabilità crescente. 

E chi ancora si ostina a vedere tutto questo come un “problema esterno” vive in una bolla di negazione.

Eppure, ogni volta che si parla di armi da inviare all’Ucraina, di addestramento, di deterrenza, si alza il coro degli indignati: “No alla guerra!”. 

Ma cos’è questa, se non guerra? Chi è stato invaso, bombardato, torturato, deportato? E chi dovrebbe difenderli, se non noi, che diciamo di credere nella libertà?

Credo sarebbe il caso di insegnare ai nostri ragazzi che la pace non è gratis. 

Che non la si ottiene con gli slogan o con i concerti. 

Che la si costruisce con la forza, forse anche con l’equilibrio del terrore, come avvenne durante la Guerra Fredda, o con il sacrificio delle armi, come fecero i partigiani e gli alleati nel ’45. 

Chi oggi si batte il petto davanti a un carro armato russo, ma poi rifiuta anche solo l’idea di un esercito europeo, è un ipocrita, o peggio un complice inconsapevole.

Perché la pace, quando non si è disposti a difenderla, è solo un invito all’aggressione. 

È una preda che si stende a terra, sperando che il predatore abbia pietà.

E badate bene: speriamo tardi, ma il rischio è che prima o poi toccherà anche a noi. 

L’illusione che “tanto non ci riguarda”, tanto abbiamo la Costituzione “più bella del mondo (chiara stupidaggine!) è la più pericolosa. 

Come accennato, l’Europa è circondata da focolai pronti ad esplodere: Ucraina, Medio Oriente, Balcani, Africa subsahariana. 

E mentre noi discutiamo su quanti migranti accogliere, qualcun altro, molto più cinico, sta già preparando la prossima mossa. 

Perché la guerra, quando non la fai, la subisci.

Churchill lo sapeva bene: “Una nazione che cerca di evitare la guerra a qualsiasi costo, avrà la guerra e anche il disonore

E noi italiani (ed europei), se non cambiamo passo, rischiamo di fare esattamente questa fine.

Prepariamoci, dunque! 

Perché arriverà il momento in cui anche gli Stati europei, magari a malincuore, dovranno chiedere ai propri cittadini di imbracciare le armi. 

Non per conquistare, ma per non essere conquistati. 

Non per la gloria, ma per la sopravvivenza.

E quando accadrà, sarà bene che i “pacifisti da poltrona” si siano svegliati. 

Perché la  realtà ci mostra che la storia bussa alla porta, e quando entrerà  sarà troppo tardi per cantare “Imagine”, e non ci sarà più tempo né per le marce, né per le manifestazioni per “testare il Campo Largo”.

Umberto Baldo

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