Italia, una Repubblica fondata sul cavillo

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Umberto Baldo
Vi confesso che non pensavo che il mio editoriale dell’altro giorno attirasse l’attenzione di molti lettori, ma evidentemente l’astrusità delle Leggi, dei Regolamenti, delle Circolari ministeriali, ed in generale del complesso della normativa prodotta dallo Stato, costituisce una spina nel fianco per buona parte di noi italiani.
Cerco quindi di aggiungere qualche altra considerazione a questa importante e sentita tematica.
L’Italia eredita una tradizione giuridica romanistica, dove la forma è sostanza.
Le norme devono essere tecnicamente perfette, senza ambiguità interne, e quindi si ricorre ad una lingua molto specifica, a volte barocca, fatta di rinvii, definizioni e concetti “caricati” (cioè giuridicamente specializzati).
Il risultato è un testo che, per essere compreso, richiede competenze specialistiche.
La conseguenza più evidente è che da sempre la cultura del diritto è sempre stata monopolio degli addetti ai lavori.
In altre parole, nel BelPaese più che altrove, il diritto è stato per lungo tempo appannaggio esclusivo di una casta, quella degli avvocati, magistrati, notai.
La complessità del linguaggio giuridico è anche un modo per marcare un confine tra “profani” e “iniziati”, creando una sorta di barriera d’accesso.
A questo si aggiunge il fenomeno dell’ “inflazione normativa, nel senso della proliferazione delle leggi, spesso mal coordinate fra loro.
Il legislatore italiano produce una quantità abnorme di norme, molte delle quali si sovrappongono, si contraddicono, o rinviano ad altre.
Questo rende difficile, anche per un giurista esperto, districarsi nel sistema. Figuriamoci per un cittadino.
Guardate che non si tratta di un problema da poco!
Siamo di fronte ad un paradosso democratico: la legge dovrebbe essere lo strumento con cui lo Stato comunica i suoi comandi e divieti al cittadino, ma troppo spesso quella comunicazione è indecifrabile. Il cittadino comune, anche colto, spesso non riesce a capire da solo se una norma lo autorizza, lo obbliga o lo punisce. Deve rivolgersi a un esperto.
E allora ci si chiede: che razza di uguaglianza è quella davanti alla legge, se serve un intermediario per capire di che si parla?
Il problema non è solo di oggi, né in verità solo italiano.
Ma in Italia assume proporzioni grottesche.
La nostra legislazione è prolissa, confusa, stratificata, con norme che si sovrappongono, si correggono, si rimandano a vicenda in un gioco di specchi infinito.
Il cittadino si trova davanti a testi oscuri, pieni di rinvii, circolari esplicative, interpretazioni giurisprudenziali.
Spesso non si capisce nemmeno se una legge è ancora in vigore oppure no.
Eppure, dovrebbe essere il contrario.
Una democrazia sana ha bisogno di leggi chiare, comprensibili, accessibili.
La chiarezza della norma non è un vezzo stilistico: è uno strumento di giustizia.
Dove la legge è oscura, vince il più forte, o il più furbo, o chi può pagarsi il miglior avvocato, che magari ha le entrature giuste per farsi “interpretare” la norma a favore del proprio cliente.
Martedi vi ho riportato il testo dei uno dei quesiti referendari su cui saremo chiamati ad esprimerci l’ 8 ed il 9 giugno
Ma chiunque abbia provato a leggere una normativa italiana lo sa: è più facile risolvere un rebus che capire cosa davvero voglia dire un articolo di legge.
In teoria, le norme dovrebbero essere strumenti semplici con cui lo Stato stabilisce i diritti e i doveri dei cittadini. In pratica, sembrano scritte apposta per confondere chi le legge — a meno che tu non sia un avvocato, un giudice o un burocrate navigato.
Volete qualche esempio?
Partiamo dalla dichiarazione dei redditi.
In 33 anni il modello 730 è passato da 5 a 19 pagine, mentre le istruzioni sono aumentate da 12 a ben 168 pagine (compresa l’appendice e le tabelle).
Un’evoluzione, quella della “lunghezza” della dichiarazione reddituale più utilizzata, che sicuramente avrà anche arricchito questo strumento, ma non è certo servita per ridurre l’evasione e l’elusione fiscale, per debellare le quali servirebbe ben altro che dei moduli.
E che dire del Superbonus 110%: una misura pensata per rilanciare l’edilizia e l’economia verde.
Bene. Peccato che la normativa sia stata riscritta decine di volte, con decreti-legge, emendamenti, FAQ ministeriali.
Il risultato? Caos, truffe, cantieri bloccati, cittadini in buona fede danneggiati.
Chi ci ha capito qualcosa fin dall’inizio? Pochi tecnici specializzati. Per tutti gli altri: buio.
Un altro esempio? Il Codice degli Appalti. Ogni tentativo di semplificarlo si è tradotto in un nuovo strato di complicazione. Per partecipare a una gara pubblica, anche per asfaltare una strada di paese, servono competenze giuridiche che scoraggerebbero anche un’impresa motivata. Il cittadino? Escluso a priori.
Badate bene che il problema non è solo tecnico.
È politico, culturale.
In Italia, si è consolidata l’idea che una legge scritta in modo semplice sia una legge “superficiale” o “banale”. Al contrario: la semplicità è la vera raffinatezza. Scrivere una norma chiara, senza ambiguità, e comprensibile a chi la deve rispettare, è segno di civiltà giuridica. Altro che tecnicismo barocco.
Alcuni Paesi lo hanno capito da tempo.
In Inghilterra e in Svezia, i testi legislativi sono scritti in plain language: linguaggio semplice, diretto, senza giri di parole. In Australia, ogni nuova legge deve superare un “test di comprensibilità”.
In Italia no. Da noi si preferisce il comma 3-bis che rinvia al comma 2-ter dell’articolo 14 del decreto 73/2012, modificato dall’articolo 6 della legge 99/2019. E chi non capisce? Che si arrangi! Tanto non ci sono gli avvocati?
Ma in questo modo si spezza il patto di fiducia tra Stato e cittadino.
Perché la legge, se non la capisci, non è più uno strumento di libertà.
Diventa un campo minato. E spesso, chi sbaglia, magari in buona fede, paga. Mentre chi ha risorse, potere ed avvocati, se la cava.
Lo so bene che il mio sarà un’ulteriore grido nel deserto, ma sarebbe veramente ora di voltare pagina.
Serve una riforma del linguaggio giuridico. Serve un Parlamento che scriva meno leggi, ma più chiare. Serve un diritto a misura di cittadino, servono leggi scritte in lingua italiana, non in “legalese”, serve un Parlamento che faccia meno norme, ma intelleggibili anche per chi non ha studiato Giurisprudenza.
Perché, concludendo, il diritto non è un privilegio per chi se lo può permettere.
È un dovere dello Stato verso tutti.
E se la legge è davvero “uguale per tutti”, allora deve essere anche “leggibile da tutti”.
Umberto Baldo