Il sovranismo nostrano si ferma a Merano

A Merano si è votato domenica per il ballottaggio del Sindaco.
Ha vinto Katharina Zeller, avvocato di 32 anni, figlia d’arte: sua madre è la senatrice Svp Julia Unterberger, e suo padre l’ex senatore Karl Zeller.
Con lei, la Südtiroler Volkspartei (SVP), torna sulla poltrona di primo cittadino della città altoatesina dopo ben 15 anni.
Non sto qui a perdermi se si tratta di una vittoria del centrodestra o del centrosinistra; lascio queste elucubrazioni ai grandi politologi, perché a mio avviso nella realtà alto atesina, con partiti autonomisti come la SVP, le divisioni tradizionali perdono parte della loro valenza.
Non posso non accennare però al teatrino (anche se in realtà la cosa a mio avviso è seria ed emblematica) messo in scena all’atto del passaggio delle consegne con il Sindaco uscente, riportata ovviamente da tutti i media.
Una cerimonia piuttosto semplice: posare davanti ai fotografi per la consegna della fascia tricolore e della chiave della città. Dario Dal Medico, l’ormai ex Sindaco, prende la fascia e vuole farla indossare a Katharina Zeller.
Lei si oppone, lui insiste. “Sei sicuro che proprio devo?”, chiede lei.
Alla fine l’avvocata accetta, ma la toglie immediatamente, infastidita: “Mettiamola via, dai”.
Poi l’ex sindaco prende la chiave della città, la porge alla neo sindaca e lei chiede che la tengano insieme davanti ai fotografi.
Lui, evidentemente irritato, ribatte: “Lo faccio se tu indossi la fascia”.
Lei taglia corto: “Non scherziamo… Su dai, allora non la tieni”.
E la polemica è servita.
Sia chiaro: non siamo davanti a un reato, né a un atto di aperta insubordinazione.
Ma il segnale è forte.
E se la reticenza della sindaca fosse frutto non di dimenticanza o di timidezza, ma di una posizione identitaria, allora sarebbe legittimo porsi qualche domanda.
Può un sindaco della Repubblica Italiana decidere, sulla base di sensibilità culturali o preferenze etniche, di sottrarsi ai simboli dello Stato che rappresenta?
Può permettersi di “negoziare” l’identità nazionale in base alle specificità locali?
Fatto sta che il gesto ha lasciato perplessi. O almeno dovrebbe.
Ma la cosa più surreale è il silenzio tombale da Roma.
Nessuna reazione da parte di Giorgia Meloni, che di solito una bandiera la infilerebbe anche nel cappuccino, se potesse.
La stessa Meloni che rivendica l’italianità perfino delle acciughe sotto sale, qui tace.
E dire che in altri tempi, quando la destra non era ancora così diplomatica, si sarebbe già chiesto l’intervento del Ministero dell’Interno, del Quirinale e magari pure di Alberto da Giussano.
E invece, niente.
Perché?
Forse perché in Alto Adige governa anche la destra, e toccare certi equilibri rischia di far saltare alleanze, consensi e convenienze.
Altro che patriottismo: prima viene il calcolo elettorale, poi – molto poi – la bandiera.
Nel frattempo è legittimo chiedersi : cosa succederà alla prossima cerimonia ufficiale?
La sindaca manderà un delegato “che se la sente di portare il tricolore”?
Si userà un foulard arcobaleno al posto della fascia?
O si proporrà un compromesso: tricolore solo sul retro, tinta neutra davanti?
A forza di rispettare “le sensibilità locali”, finiremo col farci problemi a cantare l’inno nazionale anche in Italia.
Mentre a Berlino, a Parigi, a Madrid, i sindaci cantano la Marsigliese o l’inno tedesco a squarciagola, da noi si sussurra “Fratelli d’Italia” con la stessa disinvoltura con cui si racconta una barzelletta sconcia davanti al parroco.
Il tricolore non è una provocazione.
È lo sfondo dentro cui si muove la nostra democrazia.
Se ti dà fastidio, non fare il sindaco.
Se ti imbarazza, fai un passo indietro.
Ma non pretendere di guidare un Comune italiano con l’elmetto prussiano in testa e il passaporto spirituale di Innsbruck in tasca.
Se c’è una cosa che la politica italiana dovrebbe ricordare, è questa: la convivenza si costruisce nel rispetto, non nelle ambiguità. E il rispetto, in una Repubblica, comincia dai suoi simboli.
Personalmente credo che certi gesti non possano essere lasciati nell’ambiguità.
La fascia tricolore si indossa o non si indossa. Punto.
Se si ritiene incompatibile con la propria coscienza o cultura, si ha tutto il diritto di non candidarsi a fare il sindaco in uno Stato che la prevede come simbolo d’ufficio.
Ma non si può essere sindaci della Repubblica “a metà”, con un piede nella Costituzione e l’altro nel revanscismo etnico.
È una questione di coerenza, prima ancora che di legalità.
E in fondo, è anche una prova di maturità per la politica italiana: saprà superare il tribalismo identitario per difendere l’idea – forte ma inclusiva – di nazione?
O continuerà a girarsi dall’altra parte per non disturbare gli equilibri (e gli elettorati) locali?