5 Maggio 2025 - 9.40

“Il popolo ha sempre ragione?”. Il populismo e il lento logorìo della democrazia

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Umberto Baldo

Ricordate il principio della rana bollita?

Ma sì, quel principio metaforico raccontato dal filosofo e anarchico statunitense Noam Chomsky, per descrivere una pessima caratteristica dell’essere umano moderno: ovvero la capacità di adattarsi a situazioni spiacevoli e deleterie senza reagire, se non quando ormai è troppo tardi.

Ve lo ripeto se per caso l’avete dimenticato.

“Immaginate un pentolone pieno d’acqua fredda nel quale nuota tranquillamente una rana. Il fuoco è acceso sotto la pentola, l’acqua si riscalda pian piano. Presto diventa tiepida. La rana la trova piuttosto gradevole e continua a nuotare. La temperatura sale. Adesso l’acqua è calda. Un po’ più di quanto la rana non apprezzi. Si stanca un po’, tuttavia non si spaventaL’acqua adesso è davvero troppo caldaLa rana la trova molto sgradevole, ma si è indebolita, non ha la forza di reagire. Allora sopporta e non fa nulla. Intanto la temperatura sale ancora, fino al momento in cui la rana finisce – semplicemente – morta bollita. Se la stessa rana fosse stata immersa direttamente nell’acqua a 50°C, avrebbe dato un forte colpo di zampa, sarebbe balzata subito fuori dal pentolone”

Immagino vi stiate chiedendo dove voglio arrivare!

Semplice, al fatto che, come la rana non si accorge di bollire, cosìormai il populismo è diventato una componente strutturale, più o meno evidente, di quasi tutte le democrazie contemporanee, sia occidentali che non.

E noi non ce ne accorgiamo, anche se in verità la parola “populismo” riecheggia in ogni angolo del dibattito pubblico, spesso come accusa che i leader si rivolgono vicendevolmente.

Per alcuni è una minaccia, per altri una necessità, per molti è semplicemente il modo più efficace di “parlare alla pancia” dell’elettorato. 

Ma oggi è evidente: il populismo non è più un’eccezione, è diventato il nuovo volto delle democrazie,  la grammatica dominante della politica, anche in Italia. 

Il populismo non è di per sé “di destra” o “di sinistra”, ma un metodo politico e comunicativo. Può convivere con democrazie formali, o portare a derive autoritarie. Quasi sempre semplifica i problemi e offre soluzioni facili a problemi complessi, polarizzando la società.

Ho detto “anche in Italia”, perché basta un breve giro d’orizzonte nel mondo per trovare lo slogan “Make America Great Again”, riassunto perfetto del populismo identitario e nazionalista di Donald Trump.   

Ma anche i toni ultra-liberisti, con accenti messianici ed un linguaggio da outsider radicale, del Presidente argentino Javier Milei.  

E che dire di Victor Orban, nazional-conservatore, anti-immigrazione, che si presenta come difensore della “vera Europa cristiana”?  

E del Presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, che offre  un misto tra populismo e autoritarismo, e si presenta come voce del “vero popolo turco” e dell’identità islamica nazionale?

Guardate che potrei continuare a lungo a sciorinare l’elenco di leader populisti, nazionalisti, sovranisti, identitari (e comunque al netto dai dittatori alla Nord coreana). 

Ma da dove nasce il populismo?

Non c’è una sola causa.   Ma fra queste ci sono sicuramente i partiti tradizionali, svuotati di ideologia e di visione,  spesso ridotti a contenitori elettorali guidati da leader mediatici.     Così come  i corpi intermedi – sindacati, associazioni, intellettuali –  in palese crisi di identità, ed incapaci di pensare al futuro. 

In mezzo a tale sbandamento, a tale crisi di rappresentanza, il cittadino si sente solo, disorientato. 

Ed è in questo vuoto che si fa strada chi promette, come accennato, soluzioni semplici a problemi complessi.   

In Italia, almeno ai miei occhi, il populismo si presenta come trasversale.

Giuseppe Conte ha portato avanti una narrazione da “avvocato del popolo”, cercando di interpretare una rabbia diffusa contro le élite, la burocrazia, perfino contro la scienza durante la pandemia, salvo poi riposizionarsi in chiave progressista. Ma resta ancorato ad una logica di messaggi semplici e accondiscendenti verso l’opinione pubblica più umorale.

Giorgia Meloni, oggi  Capo del Governo, ha costruito il suo successo su un linguaggio fortemente identitario, anti-sistema, “patriottico”, che punta a dividere il campo tra “noi italiani veri” e “loro” (che siano i migranti, l’Europa tecnocratica, le Ong, o la sinistra radical chic). Governa con toni più moderati rispetto alla campagna elettorale, ma la tentazione di agitare lo spauracchio dell’invasione o dell’assedio giudiziario, resta sempre viva.

E poi c’è Elly Schlein, che guida il PD cercando di cavalcare un populismo progressista, fatto di parole d’ordine radicali e polarizzanti: diritti civili, ambientalismo assoluto, lotta ai “ricchi”, contrapposizione morale tra “buoni” e “cattivi”.     Ma anche qui, spesso, le parole sono più slogan da Centri Sociali che visione concreta di governo.

Tralascio volutamente altri soggetti come Nicola Fratoianni di Sinistra Italiana e soprattutto Matteo Salvini, che nella sua deriva populista di estrema destra è arrivato a parlare di “furto di democrazia” relativamente al giudizio con cui l’Ufficio per la protezione della Costituzione tedesca ha giudicato Alternative fur Deutschland una “entità estremista che minaccia la democrazia”.

In tutti e tre i casi, Meloni, Conte, Schlein, il tratto comune è la semplificazione: il nemico da indicare, il popolo da rassicurare, l’élite da combattere. 

Manca, quasi sempre, il coraggio della complessità, della verità scomoda, della responsabilità istituzionale.

Vedete, oggi il vero rischio non é solo quello di un populismo di destra o di sinistra; é il fatto che tutti i principali protagonisti della scena politica italiana usano, in forme diverse, gli stessi strumenti retorici. 

L’obiettivo non è più convincere, bensì sedurre. Non costruire, ma ottenere consenso rapido.

Ma la Democrazia non è fatta per le folle impazienti. 

È fatta per cittadini consapevoli, per istituzioni forti, per mediazione e rispetto reciproco. 

Quando si governa inseguendo la prossima curva dei sondaggi o il prossimo trending topic su TikTok, si è già oltre la soglia del populismo: si è nel regno dell’irresponsabilità.

E allora diciamolo chiaramente: Meloni, Schlein e Conte rappresentano tre facce diverse dello stesso problema. 

Tutti e tre usano un linguaggio populista, perché sanno che oggi funziona. 

Ma ciò che funziona in campagna elettorale rischia di diventare tossico nel governo della cosa pubblica.

Il populismo non è un peccato originale: è una tentazione costante. 

Ma chi cede troppo a lungo alla tentazione, alla fine, smette di governare per tutti. E comincia a governare contro qualcuno.

Ed è lì che la democrazia comincia a morire. 

In silenzio, con il sorriso sulle labbra, sotto gli applausi del popolo.

Il compito delle democrazie oggi non è semplicemente demonizzare il populismo, ma comprenderlo e rispondere alle sue domande, senza cadere nelle sue trappole. 

Per spiegarmi meglio, il problema non è che la gente voglia essere ascoltata; quello è naturale. 

Il problema è che troppi leader si ergono a “voce del popolo”, ma in realtà il popolo lo usano come paravento per rafforzare il proprio potere personale, soffocare il dissenso, e ridurre lo Stato di diritto a un teatrino mediatico.

E allora diciamolo chiaramente che non tutto ciò che viene dal “popolo” è automaticamente giusto, e non tutto ciò che è “contro le élite” è virtuoso. 

Il populismo, quando rinuncia alla complessità, non è più una risposta democratica: è un inganno, un trucco da imbonitori, un grido che serve solo a coprire il vuoto delle soluzioni reali.

Io credo che chi governa abbia il dovere di ascoltare, ma anche il coraggio di dire no. 

Di spiegare che non tutto si può ottenere subito. 

Che la democrazia è fatica, è compromesso, è responsabilità. 

Il populismo, invece, promette scorciatoie. 

Ma attenzione: le scorciatoie della storia portano quasi sempre a un vicolo cieco. O peggio, ad un regime.

Umberto Baldo

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