14 Febbraio 2025 - 9.58

Il caso Emilia Pérez e il “puritanesimo” commerciale di Netflix

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Di Alessandro Cammarano

Fino a qualche giorni fa il trionfo di Netflix, al terzo tentativo, agli Oscar sembrava cosa fatta; “Emilia Pérez” era dato come strafavorito per la vittoria come miglior film… e invece no, tutto a monte e magari se ne riparlerà il prossimo anno; il film che ha ottenuto 13 candidature agli Oscar, inclusa quella per la Miglior Attrice Protagonista per Gascón – che a Cannes ha vinto la Palma d’Oro –, la prima interprete transgender candidata in questa categoria probabilmente non vincerà nulla.

Nel frattempo, il colosso dello streaming – in un goffo tentativo di correre ai ripari – mostra i suoi piedi d’argilla, sfoderando un puritanesimo tutto di facciata in puro “american style” che non gli fa per nulla onore, anzi.

A questo punto è opportuno ripercorrere i fatti.
Negli ultimi giorni, Netflix ha preso le distanze dall’attrice ransgender Karla Sofía Gascón, protagonista del film “Emilia Pérez”, a causa di alcuni suoi vecchi tweet considerati razzisti e islamofobi. Questi messaggi, risalenti al periodo 2019-2021, contenevano commenti offensivi su diverse comunità e figure pubbliche. Ad esempio, in un tweet, Gascón definiva l’Islam come una “fonte di infezione per l’umanità”; in un altro, riferendosi agli Oscar del 2021, si chiedeva se la cerimonia fosse diventata un “festival afro-coreano” o una “manifestazione del Black Lives Matter”.

In risposta a queste rivelazioni, Netflix ha deciso di escludere Gascón dalla campagna promozionale di “Emilia Pérez” negli Stati Uniti.

La piattaforma ha rimosso l’attrice dai materiali promozionali e ha annullato la sua partecipazione a eventi legati al film, come il pranzo degli AFI Awards e i Critics Choice Awards. Inoltre, Netflix non coprirà le spese di viaggio e alloggio per Gascón in occasione delle prossime cerimonie di premiazione.

Nonostante le scuse pubbliche dell’attrice, che ha espresso profondo rammarico per aver causato dolore con le sue parole, la comunità cinematografica e i social media hanno continuato a criticare aspramente i suoi commenti passati. Di fronte all’intensificarsi delle critiche, Gascón ha deciso di disattivare il proprio account su X.

Di più: il regista del film Jacques Audiard ha anch’egli preso le distanze da Gascón, definendo le sue parole “ingiustificabili” e accusandola di “fare la vittima”. Audiard ha dichiarato di non voler più avere contatti con l’attrice e ha espresso tristezza per la situazione, sottolineando però la necessità di continuare a promuovere il film e a supportare gli altri membri del cast e della troupe.

Le scelte di Netflix – per inciso la toppa è assai peggio del buco –, sono disastrose ma rivelatrici: con il suo immenso potere nel mondo dell’intrattenimento, la piattaforma ha spesso cercato di posizionarsi come progressista e inclusiva, attenta alle tematiche sociali e alla rappresentazione delle minoranze e tuttavia, il caso “Emilia Pérez” mette in luce una contraddizione evidente tra l’immagine di apertura promossa dall’azienda e le sue reali strategie commerciali.

Nonostante il successo critico, Netflix ha infatti deciso di non distribuire il film negli Stati Uniti e in altri mercati chiave, perdendo otto milioni di dollari versati alla produzione.
Questa scelta ha fatto sorgere sospetti su un possibile “puritanesimo di facciata”, ovvero un atteggiamento apparentemente inclusivo che, all’atto pratico, si scontra con calcoli di opportunità economica e la paura di scontentare determinate fasce di pubblico.

Netflix si è spesso vantato della sua apertura verso la comunità LGBTQ+, producendo e promuovendo contenuti come “Heartstopper”, “Orange is the New Black” o “Sex Education”. Tuttavia, questi prodotti, pur presentando tematiche progressiste, sono calibrati per essere appetibili a un vasto pubblico, con una narrazione che non risulta mai realmente provocatoria o scomoda.

Nel caso di “Emilia Pérez”, il problema non è tanto la presenza di una protagonista transgender – Netflix ha già lavorato con attrici trans come Laverne Cox (Orange is the New Black) e Jamie Clayton (Sense8) – quanto il contesto e la portata del film.

Qui la storia non è solo un dramma personale, ma coinvolge tematiche più ampie come il crimine organizzato, la violenza e la trasformazione identitaria in un contesto narrativo ambizioso e complesso, e questo potrebbe rendere il film meno “digeribile” per un pubblico abituato a una rappresentazione più standardizzata delle identità trans.

Inoltre, Netflix sa bene che negli Stati Uniti il tema transgender è diventato altamente politicizzato, con una crescente ostilità da parte di una parte del pubblico conservatore. Temendo polemiche o reazioni negative, il colosso dello streaming potrebbe aver scelto la via più sicura: evitare del tutto la distribuzione del film in alcuni mercati.

Questo atteggiamento rientra in una strategia più ampia: Netflix promuove un’immagine progressista finché è conveniente, ma quando il rischio di perdere spettatori o entrare in controversie diventa troppo alto, preferisce sottrarsi. È un percorso che si è già visto in altre occasioni.

Ad esempio, la piattaforma ha prodotto documentari e film di denuncia su temi sociali, ma ha evitato di affrontare direttamente questioni troppo scomode per determinati governi o mercati; nel 2019 Netflix ha rimosso un episodio della serie “Patriot Act” in Arabia Saudita perché criticava la monarchia saudita. Allo stesso modo, ha censurato contenuti ritenuti blasfemi in paesi come l’India per evitare problemi con le autorità locali.

Se si applica questa logica al caso di “Emilia Pérez”, appare evidente che Netflix, pur volendo mostrarsi inclusivo e progressista, ha scelto di evitare lo scontro su un tema che negli Stati Uniti e in altri mercati potrebbe risultare divisivo.

Il caso di “Emilia Pérez” mette dunque in discussione un problema più ampio dell’industria dell’intrattenimento: la rappresentazione delle minoranze è spesso guidata più da strategie di marketing che da un reale impegno sociale.

Netflix e altre piattaforme producono contenuti LGBTQ+ perché esiste un mercato per essi, ma quando un film esce dagli schemi troppo rigidamente imposti dalla narrazione mainstream, può diventare un rischio.

Questo porta a una rappresentazione che, pur ampliando la visibilità di certe tematiche, finisce per renderle omogenee e tutto sommato “inoffensive”.

Il problema non è comunque solo Netflix, ma un intero sistema che preferisce raccontare storie LGBTQ+ solo se inserite in un contesto facilmente assimilabile dal pubblico generale, evitando di sfidare realmente pregiudizi e aspettative.

Netflix si trova intrappolato in un paradosso: vuole essere percepito come progressista e inclusivo, ma allo stesso tempo deve proteggere i suoi interessi commerciali, evitando polemiche che potrebbero danneggiare il business, giungendo a decisioni come quella su “Emilia Pérez”, che mettono in discussione la sincerità del suo impegno per la diversità e l’inclusione.

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