Due solitudini armate: il duello infinito tra Israele e Iran

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C’è una cosa che impariamo dalla storia: finché la partita è aperta, non conviene mai scommettere su chi vincerà.
Questo vale nello sport, nella politica e, a maggior ragione, nelle guerre.
Tanto più quando il campo di gioco è il Medio Oriente, e i giocatori sono due potenze, Israele e Iran, che si odiano non solo per interessi contrapposti, ma per visioni del mondo inconciliabili.
E’ evidente infatti che il problema non è solo militare, la questione è quella antica, quella eterna, e si chiama “questione ebraica”. Quella di un popolo perseguitato per millenni, cancellato nei secoli dai regni e dagli imperi, bruciato nei forni, odiato per ciò che è, per il fatto stesso di esistere.
Non proverò quindi ad indovinare l’esito finale.
Ma credo utile tentare di capire in quale fase del gioco ci troviamo.
Cominciamo da Israele.
A dispetto delle feroci polemiche interne, che oppongono Netanyahu a Gantz, Lapid e parte della società civile israeliana, su una cosa l’intero arco politico israeliano è sempre stato d’accordo: un Iran dotato di armi nucleari rappresenterebbe una minaccia esistenziale.
Non è una paranoia. È un fatto.
Da anni Teheran lavora per acquisire capacità nucleari, e non le servono certo per costruire centrali elettriche.
Perfino i moderati israeliani hanno spesso accusato Netanyahu di non aver fatto abbastanza contro la Repubblica Islamica.
Dopo aver colpito duramente i proxy iraniani, da Hamas a Hezbollah, dagli Houthi alle milizie sciite in Siria e Iraq, l’escalation per Israele era pressoché inevitabile.
D’altronde, se vuoi disinnescare una bomba, prima o poi devi tagliare il filo principale, quello che innesca tutto.
E quel filo passa per Teheran.
Che l’America, con Trump alla Casa Bianca, avrebbe appoggiato l’operazione, in teoria non era scontato.
Ma per quanto mi riguarda era praticamente scritto, come nelle Tavole della Legge.
Poi c’è l’altra faccia della guerra. Quella iraniana.
Nel 1979, l’Iran era un paese ricco, colto, con enormi risorse naturali ed una classe media in espansione.
Oggi è un’economia devastata, governata da una casta clericale che ha trasformato un sogno di grandezza in un incubo permanente.
Il PIL pro capite iraniano, che trent’anni fa era comparabile a quello di Israele, oggi è quindici volte inferiore.
Un risultato impressionante, se si considera che Teheran siede su uno dei giacimenti energetici più ricchi del pianeta, si stima superiore a quello dell’Arabia Saudita.
A distruggere questo potenziale non sono state le sanzioni, ma l’ideologia: il culto della guerra, l’ossessione anti-occidentale, il fanatismo religioso, oltre che decenni di mala gestione, corruzione, militarizzazione della spesa pubblica e repressione sociale.
Le leadership clericali, alleate con i Guardiani della Rivoluzione, hanno disperso in decenni di conflitti regionali centinaia di miliardi che avrebbero potuto sollevare milioni di persone dalla povertà.
E hanno finanziato ogni forma di destabilizzazione possibile, dal Libano allo Yemen, dalla Siria alla Striscia di Gaza.
Ogni conflitto, ogni fallimento statale, ogni ondata di profughi ha avuto un’impronta iraniana.
Il risultato è che l’’Iran è oggi un paese impoverito, isolato e con un crescente dissenso interno, soprattutto tra i giovani e le donne.
Il punto più delicato della storia resta quello del nucleare.
Israele riteneva, come accennato con ampio consenso politico interno, che l’Iran fosse vicino al completamento della propria capacità di dotarsi di un’arma atomica.
Questa eventualità è da sempre ritenuta inaccettabile, e non solo da Tel Aviv.
Tutti i Paesi arabi, così come l’Unione Europea e gli Stati Uniti, condividono in modo più o meno esplicito questa preoccupazione.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz lo ha detto senza ambiguità: “Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti noi”.
Il senso della frase è chiaro. Una potenza nucleare iraniana metterebbe a rischio non solo Israele, ma l’intera architettura di sicurezza del Medio Oriente.
Spingerebbe i Paesi del Golfo ad un riarmo accelerato, renderebbe ancora più instabile il Mediterraneo orientale, e aumenterebbe il rischio di una proliferazione nucleare regionale.
È per questo motivo che, pur tra mille cautele diplomatiche, anche Paesi ostili a Israele come la Russia e la Cina hanno finora mantenuto una certa distanza dagli Ayatollah (appoggio a parole e tante pacche sulle spalle, ma poco altro).
L’Iran, oggi, è più isolato di quanto non fosse anche solo cinque anni fa.
Non dimenticate mai che il problema di qualsiasi guerra non è il durante, a volte non è neppure chi vince o chi perde.
Il problema vero è sempre il “dopo”.
La storia insegna, a chi ha voglia di ascoltarla, che il vero problema delle guerre non è quasi mai il loro svolgimento, né la conta dei vinti e dei vincitori..
È nel “dopoguerra” che si annidano i germi delle future catastrofi: nei trattati iniqui, nelle vendette mascherate da giustizia, nei nuovi equilibri imposti con la forza, nelle umiliazioni che diventano memoria collettiva.
Il Trattato di Versailles, tanto per fare un esempio scolastico, mise le basi per la Seconda guerra mondiale ancor prima che la “Prima” fosse davvero finita.
La Guerra Fredda nacque come figlia legittima della Seconda, e il terrorismo internazionale che da anni ci affligge è spesso figlio bastardo di conflitti mal gestiti nel dopoguerra: Afghanistan, Iraq, Libia.
Non è dunque la guerra in sé, sempre orrenda, ma il modo in cui la si chiude, o si finge di chiuderla, a determinare se essa sarà davvero l’ultima o solo l’ennesimo capitolo di una spirale infinita.
Ecco perché io pavento il rischio che una vittoria militare israeliana contro Teheran rafforzi le frange più radicali anche in Israele.
L’idea dell’ “Eretz Israel”, del “Grande Israele”, già presente in alcuni settori della destra religiosa, potrebbe diventare più centrale.
L’ipotesi di uno Stato palestinese verrebbe così definitivamente archiviata, con conseguenze imprevedibili non solo per la regione, ma per la stessa tenuta interna dello Stato israeliano.
È necessario dunque distinguere con chiarezza tra sicurezza nazionale ed ambizioni ideologiche.
Israele ha il diritto di difendersi da un’aggressione strategica, e per quanto mi riguarda su questo non ci piove.
Ma questo diritto non può tradursi in un’accelerazione verso l’annessione permanente dei territori palestinesi.
Sul fronte iraniano invece l’unica vera speranza di stabilizzazione duratura viene dall’interno, perché abbiamo visto e toccato con mano che le “democrazie esportate ed imposte” finora si sono rivelate fallimenti epocali.
Le proteste popolari, la crescente insoddisfazione della classe media urbana, il malcontento giovanile e femminile, sembrano indicare che la legittimità del regime dei Preti inturbantati, e delle loro milizie assassine, sia in crisi.
Un cambiamento politico, anche se lento e graduale, senza sottovalutare il nazionalismo interno iraniano, è l’unica via per riportare l’Iran in un percorso di riconciliazione con il mondo.
Un futuro ordine regionale più stabile può fondarsi solo su due condizioni: la fine dell’ambizione egemonica dell’Iran nel Medio Oriente, e l’apertura di un nuovo processo di pace israelo-palestinese.
La normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, oggi congelata, potrebbe rappresentare una svolta decisiva in tal senso.
Ma perché questo diventi possibile, è indispensabile che l’Iran cambi natura, non solo leadership.
E che Israele, al termine di questa lunga stagione di guerra, trovi anche la forza di pensare al giorno dopo.
In definitiva, un Iran libero, riconciliato con il mondo, potrebbe dare il via a una nuova fase: pace con l’Arabia Saudita, dialogo tra sciiti e sunniti, e magari, finalmente, una soluzione a due Stati per la Palestina.
Ma perché tutto questo possa iniziare, a mio avviso la testa del serpente deve cadere.
E al posto dell’Idra, a Teheran serve un governo razionale, laico, desideroso di ricostruire e non di distruggere.
Il futuro del Medio Oriente si gioca oggi, ma non solo sui campi di battaglia.
Anche, e soprattutto, nei cuori e nelle menti degli iraniani e degli israeliani.
Ma come sempre, non date mai nulla per scontato!