12 Novembre 2025 - 9.40

Otto senatori ribelli salvano Trump. Democratici Usa in terapia di gruppo

Umberto Baldo

Ove mai riteneste che il “cambio di casacca” o il “salvataggio dei Governi” fosse una tipicità tutta italica, sappiate che, in ossequio al vecchio adagio secondo cui “tutto il mondo è paese”, questo succede anche in Paesi di altra tradizione (meno trasfomistica).

Quindi tranquilli, di Razzi e Scilipoti, solo per fare due esempi, che nel 2010 abbandonarono l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro per approdare fra le braccia di Silvio Berlusconi, dopo aver salvato in extremis il suo Esecutivo, se ne trovano anche sotto altri cieli.

In particolare mi riferisco ad una “storia americana”, che si è consumata fra le vecchie mura del Senato degli Stati Uniti. 

Per capire appieno di cosa stiamo parlando bisogna ricordare che se l’Amministrazione Usa non riesce a fare approvare il bilancio federale (entro il 1° ottobre) scatta il cosiddetto Shutdown (letteralmente spegnimento), in base al quale il Governo non è più in grado di pagare quasi nulla, fra cui  i dipendenti pubblici. 

Non è che i soldi non ci siano; solo che non si possono spendere fino a che il Parlamento non dà il via libera.

Avrete certamente visto le immagini di aeroporti in crisi per mancanza di controllori di volo, solo per fare un esempio, ma in realtà a restare senza stipendio sono buona parte dei dipendenti federali. 

Non avendo la maggioranza richiesta al Senato, Donald Trump si è trovato in questa situazione; con il Partito Democratico disposto a votare sì solo  in cambio di un ripensamento del Presidente relativamente alla sua politica di tagli alla spesa pubblica (in particolare l’Affordable Care Act sull’assistenza sanitaria, meglio noto come Obamacare).

Immaginate che tutto questo avviene in una fase di euforia per i democratici, galvanizzati dalle vittorie  del 4 novembre a New York ed in alcuni Stati.

Sembrava una nuova alba, un nuovo inizio.

Altro che “nuovo inizio”: nel Partito Democratico americano stanno volando gli stracci. 

Tutto perché otto senatori Dem ( Dick Durbin dell’Illinois; Jeanne Shaheen e Maggie Hassan del New Hampshire; John Fetterman della Pennsylvania; Catherine Cortez Masto e Jacky Rosen del Nevada;  Tim Kaine della Virginia; Angus King del Maine) hanno scelto di votare con i Repubblicani a favore di una mozione di compromesso e, nel giro di poche ore, la sinistra interna li ha battezzati “gli otto traditori”. 

Altro che vento in poppa; oggi  i Democratici si ritrovano a litigare come in una vecchia riunione di condominio: chi ha svenduto chi, chi ha tradito chi. 

E soprattutto, chi pagherà il conto politico dell’ennesimo pasticcio.

Il testo dell’accordo rimette in moto la macchina dello Stato fino a fine gennaio: soldi all’Agricoltura, ai Veterani, alla Difesa e al Programma di sussidi alimentari Snap, da cui dipendono 42 milioni di americani. 

Tutto bene, se non fosse che il capitolo più importante — quello sui sussidi sanitari dell’Obamacare su cui puntava fortemente il Partito Democratico — è scomparso nel nulla. Nessuna proroga, nessuna certezza. Solo la promessa, molto americana, di “vedremo a dicembre”.

Il leader repubblicano Mike Johnson ha già messo le mani avanti: “Non prometto niente a nessuno”. E in effetti, per ora, non ha promesso nulla a nessuno.
Intanto i democratici si accusano a vicenda. 

Ha voglia la senatrice Jeanne Shaheen (78 anni) una delle otto ribelli, a dire che “aspettare ancora avrebbe solo prolungato le sofferenze degli americani”. 

Traduzione: abbiamo ceduto, ma per il loro bene.

Il guaio è che nessuno pare crederci. 

Il leader di minoranza Chuck Schumer viene ormai visto come un generale che ha perso il controllo delle truppe. 

Le sue ultime mosse — compromessi su compromessi — hanno scatenato più malumori che consensi. 

E qualcuno, tra i progressisti, comincia a chiedergli di farsi da parte prima che il partito perda la faccia (e le elezioni).

L’idea che questo accordo servisse a “ridare fiducia al governo” è evaporata in fretta. 

Per molti, è stato solo un colpo di spugna che ha regalato ai Repubblicani un’uscita elegante da una situazione imbarazzante, lasciando i Democratici con il cerino in mano.

Qualcuno ricorda che nel 2013 i ruoli erano invertiti: allora furono i Repubblicani a chiudere tutto per fare guerra all’Obamacare, e ne uscirono con le ossa rotte… almeno fino alle elezioni successive, quando vinsero. 

Ma oggi l’America non è più quella: è più povera, più stanca, e decisamente meno disposta a perdonare gli inciuci di Washington.

A tal proposito qualcuno ha notato che ci sono pochi fili conduttoriche collegano il gruppo che ha rotto l’impasse del Senato,  salvo che nessuno degli otto senatori Dem che ha votato con i Repubblicani è in corsa per la rielezione nel 2026.

Io credo che questo evidenzi il problema della distanza generazionale fra i leader dei senatori che guidano il partito democratico, la cui età media sfiora i 70, e le nuove generazioni.

Il contrasto è lampante: da un lato una generazione che sogna di cambiare il mondo, dall’altro una classe dirigente che sogna solo la pensione.

Tanto per capirci, la senatrice Shaheen, ripeto 78 anni, è stata perfino criticata pubblicamente dalla figlia Stefany, che si candida al Congresso, e che  ha dichiarato di non poter sostenere la scelta della madre.

C’è del simbolico, e del tragico, in tutto questo: il partito che si presenta come “il volto del futuro” viene messo in crisi da un conflitto familiare madre-figlia, in diretta nazionale.
E mentre i Repubblicani gongolano, forse i Democratici si interrogano su chi, tra loro, sia ancora in grado di capire dove stia andando l’America.

Umberto Baldo

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