8 Giugno 2022 - 9.30

Peschiera del Garda. “Digito ergo sum”

di Umberto Baldo

Del duro commento con cui il Presidente del Veneto Luca Zaia ha stigmatizzato le aggressioni ai danni di ragazze italiane di pelle bianca da parte di giovani africani convenuti sul lago di Garda per un raduno chiamato “L’Africa in Italia”, ha suscitato il mio interesse in particolare questo passaggio: “Ma lo sa la cosa che più mi ha colpito? I tizi che stavano lì, belli e tranquilli in quel manicomio, a riprendere tutto con i telefonini. Mentre la polizia caricava, questi filmavano. Per essere i primi a rilanciare la cosa sui social immagino. Neanche c’è più la paura, quel che conta è dire “io c’ero”.
Queste parole di Zaia secondo me mettono in evidenza il problema dei social media nella nostra società, ed in particolare del rapporto con gli stessi delle nuove generazioni.
Non crediate che io, per quanto ormai attempato, sia un detrattore delle nuove tecnologie, anzi!
Le utilizzo costantemente, e le apprezzo molto.
E mi rendo anche conto che il successo dei social media in particolare risponde ad una esigenza primaria del nostro essere “umani”.
So bene che da sempre l’uomo, in quanto essere sociale, ha avuto bisogno di essere accettato, amato e stimato, ed in quest’ottica i social sembrano lo strumento migliore per rispondere a tale esigenza.
Il problema è che mi chiedo se non stiamo forse esagerando nel proiettarci con tanta insistenza in un mondo virtuale, per il quale ciò che conta è solo ciò che appare.
Un mondo composto nella maggior parte dei casi da persone che non conosciamo, o che al massimo abbiamo visto su uno schermo.
Celiando un po’, ma in realtà non troppo, il filosofo Cartesio, l’inventore del ”dubbio metodico”, tentò di spiegare nel ‘600 il problema ontologico con la sua famosa espressione “Cogito ergo sum” (penso quindi sono); al giorno d’oggi si potrebbe declinare questo concetto con “digito ergo sum”.
Mi rendo conto che potrebbe sembrare una forzatura, ma come spiegare altrimenti questa ansia di apparire sui social?
Ricerca di una qualche forma di notorietà, forse anche di gloria?
Non c’è dubbio che siamo tutti un po’ narcisisti, ed i social rappresentano attualmente il palcoscenico ideale sul quale ognuno può mettersi in mostra cercando di mostrare il meglio di sé.
E’ proprio così, oppure questa irrefrenabile esigenza di postare foto, video, selfie, nasconde una solitudine di fondo, una notevole insicurezza, e magari anche una mancanza di fiducia in se stessi?
Io credo che la molla che spinge soprattutto i nostri ragazzi, ma anche buona parte degli adulti, a condividere particolari anche intimi della propria vita, risponda all’esigenza di restare sempre sul palco, sulla scena, sotto i riflettori, per illudersi di essere e restare protagonisti.
E così le approvazioni, i like, il pollice alzato, il commento positivo, consentono a colui che “posta” di sentirsi importante, adulato, gratificato, desiderato, in certi casi anche invidiato.
Tutto ciò è stato reso possibile dallo sviluppo tecnologico, perchè prima dei social media esistevano solo i mass media, valer a dire giornali e televisioni, che non permettevano alcuna forma di interazione. Con i social invece non solo l’utente non è uno spettatore passivo, ma può partecipare alla conversazione, apportando il proprio contributo.
Si tratta, senza dubbio, di un meccanismo fantastico per condividere le proprie avventure e i propri pensieri, e grazie al quale riusciamo a essere sempre aggiornati sulle notizie che ci interessano. Per non dire che i social aiutano ad esempio le persone costrette a stare a letto per motivi di salute, o quelle che si trasferiscono per periodi medio-lunghi per motivi di lavoro, a mantenere i propri contatti quasi inalterati; e le videochiamate hanno avuto un ruolo fondamentale nel sentirsi meno soli, e nel ridurre gli effetti negativi dell’isolamento forzato, durante la pandemia da Covid.
Ma nonostante questo i social non possono diventare parte essenziale e necessaria della nostra vita.
Se così fosse, e questa è l’impressione che se ne trae osservando l’uso compulsivo da parte di giovani e giovanissimi, sarebbe un qualcosa di anomalo, quasi di patologico.
Credo sia capitato a tutti di sentire una persona dire ad un’altra: “cosa ti succede, non pubblichi più niente su Facebook?”
Il che porta a concludere che alcuni pensano che se non pubblicano ciò che fanno o i dettagli della loro vita, è come se niente fosse mai accaduto, che una esperienza diventa significativa solo nel momento in cui appare su Facebook, e si cominciano a ricevere i “mi piace” e i commenti.
Ma questo porta inevitabilmente alle conseguenze denunciate dal nostro Luca Zaia, che relativamente ai fatti incresciosi avvenuti su quel treno a Peschiera, non era importante intervenire e dare una mano alle vittime di quella violenza, bensì girare un video da postare per primi sui social.
In questo modo si ha come un cambio di prospettiva, nel senso che quello che ci circonda, quello che facciamo, quello che vediamo, quello cui assistiamo, non è più semplice materiale da archiviare nella nostra memoria, ma viene valutato dalla mente solo in funzione della sua possibilità di essere condiviso.
In altre parole, di fronte ad un bel tramonto, o ad uno splendido paesaggio, uno non ferma più l’auto per ammirare estasiato uno spettacolo unico e straordinario della natura, bensì per condividerlo su uno schermo.
Può sembrare la stessa cosa, ma non lo è!
Perchè c’è un evidente cambio di prospettiva, da una dimensione “personale ed intima” della vita, ad una appunto “sociale”, in cui l’affanno di apparire sui social media sembra rispondere alla sola necessità di esserci, cui è intimamente correlato un bisogno di approvazione degli altri, un bisogno di essere accettati e spalleggiati, che si sublima nella soddisfazione che si prova ad esempio quando un selfie riceve molti “like” o commenti lusinghieri.
Ecco perchè, saccheggiando Cartesio, parlavo di “Digito, ergo sum”.
Sia chiaro che nella storia non si torna mai indietro, ed i social sono ormai una realtà da cui è impossibile prescindere, anche perchè, piaccia o non piaccia, fanno ormai parte integrante del nostro modo di vivere, e sono diventati anche veicolo di un business colossale, cui difficilmente si può rinunciare.
Ma questo non vuol certo dire accettare passivamente che, grazie a loro, i nostri ragazzi vivano in una sorta di dimensione parallela nella quale smettono di avere un’identità e diventano semplicemente profili o follower, le cui emozioni sono definite da cuoricini, faccine tristi o arrabbiate, e le cui scelte sono condizionate dai cosiddetti influencer, personaggi che hanno ben capito il meccanismo, e lo sfruttano per arricchirsi a scapito di coloro che pendono dalle loro labbra, o dai loro video.
Anche perchè la potenzialità dei social stanno cominciando a percepirla anche i politici, e ogni avventuriero sa che quanto più un individuo è carente di spirito critico e di autonomia di giudizio, tanto più è facile condizionarne le scelte, ed il voto.
Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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