Perché il rosso a Marchisio è un rosso al Paese Italia
di Marco Osti-
È finita l’avventura dell’Italia ai Mondiali e non è finita bene.
Poteva essere, come scritto nei due articoli precedenti sul tema, l’occasione per ottenere un segnale di ripresa del Paese e invece ha prevalso l’Italia inconcludente e litigiosa, che si avvita nel gorgo della crisi senza trovare le risorse per uscirne, che da tanto, troppo tempo, conosciamo.
La banda di ragazzi vestiti di azzurro che abbiamo mandato in Brasile a rappresentarci, il suo allenatore e tutta la Federazione Gioco Calcio, invece di diventare simbolo di un riscatto, che dobbiamo pervicacemente continuare a cercare e costruire, sono assurti a simbolo preciso e disarmante di quello che non dobbiamo più essere.
Contro l’Uruguay si è vista un’Italia migliore di quella inadeguata e vuota che ha perso contro la Costa Rica, ma è stata comunque insufficiente e inefficace.
Se avessimo passato il turno con il pareggio che stavamo cercando e ottenendo probabilmente non ci sarebbero i processi di oggi, quindi non attribuiamo a episodi calcistici, che cambiano l’esito di una singola partita, significati eccessivi.
Abbiamo perso, potevamo pareggiare e magari, non ci fosse stata
l’espulsione di Marchisio, anche vincere, quindi la valutazione
deve essere complessiva e tiene necessariamente conto anche di cosa è successo dopo e come si è reagito alla sconfitta.
Speravamo che la Nazionale vista contro l’Inghilterra fosse
l’immagine della parte dinamica dell’Italia, quella che vuole reagire alle difficoltà, vuole guardare al futuro, vuole tornare a sentirsi un Paese unito e autorevole, anche rispetto al resto d’Europa e del mondo.
Invece era lo specchio esatto di questa Italia di inizio Duemila, dove quella componente così propositiva è solo una parte di un tutto, nel quale c’è anche pressapochismo, trascuratezza, menefreghismo, un individualismo fine a se stesso, scarsa professionalità, poco senso del dovere e di responsabilità, una ricerca del risultato a volte con grande impegno unito ad altrettanta confusione e disorganizzazione.
Noi volevamo un segnale di speranza, abbiamo avuto una fotografia spietata di quello che siamo e di come siamo vissuti e percepiti.
Nell’espulsione ingiusta e gratuita comminata a Marchisio e in
quella mancata di Luis Suarez, per il morso a Giorgio Chiellini, c’è anche questo.
C’è la percezione di una Italia piccola e indifesa, che non ha voce nei consessi internazionali e non ce l’ha perché
l’autorevolezza e il prestigio si guadagnano sul campo, di calcio, come in quello sociale e politico, con azioni concrete, prove di affidabilità ed esempi virtuosi, che costruiscono giorno per giorno il rispetto degli interlocutori, come degli avversari, come dei giudici internazionali, siano essi arbitri di una partita di calcio o istituzioni che devono giudicare il bilancio di un Paese o la solidità del suo sistema bancario e sociale.
Quella decisione dell’arbitro messicano Marco Antonio Rodriguez
Moreno ha fatto male e ci ha umiliati, come lo hanno fatto in questi anni i giudizi dati all’Italia all’estero da Capi di Stato,istituzioni politiche, commentatori, giornalisti, quelli che quando giriamo per l’Europa sentiamo da qualcuno per caso in un bar o al ristorante.
Sempre con lo stesso atteggiamento di superiorità verso noi e il nostro Paese, tanto meraviglioso, ma gestito così male da un popolo simpatico, furbo e un po’ mascalzone a cui non si affiderebbe neanche la gestione di un condominio.
E il problema che questa fama ce la siamo costruita noi, nella
quotidianità, con le nostre inefficienze, invidie, corruzioni,
superficialità, contrapposizioni provinciali da quartiere, con la nostra incapacità di aspirare alle vette che il nostro valore e il nostro talento ci consentono di raggiungere quelle volte che riusciamo a organizzarli e strutturarli.
Un Paese dove il calcio è un simbolo della società, mentre da altre parti è uno sport come tanti e non necessariamente il più importante, che si aggrappa alle dichiarazioni dei calciatori come a un oracolo.
Ragazzi che della vita comune conoscono poco e nulla, tra i quali anche i più maturi comunque non raggiungono i quarant’anni e hanno sempre vissuto in contesti diversi da quelli che affrontano tutti i giorni i loro coetanei.
Ma se così è, ne prendiamo atto, e dobbiamo quindi constatare che i nostri giocatori non hanno saputo neanche perdere insieme, come avrebbero dovuto vincere.
E’ stato eclatante ed encomiabile, per quanto concerne
l’assunzione delle proprie responsabilità, che l’allenatore Cesare Prandelli e il presidente federale Giancarlo Abete abbiano rassegnato le loro dimissioni, in un Paese dove atti del genere sono quantomeno sporadici, allo stesso tempo è stato un segnale di sfaldamento mandato quando si era ancora dall’altra parte del mondo.
In questo scenario qualsiasi parvenza di coesione è crollata, come dimostravano le dichiarazioni di giocatori più maturi quali De Rossi e Buffon, che subito si sono prodigati a scaricare le colpe sui giocatori più giovani, accusandoli di scarso impegno e poca dedizione alla causa.
E naturalmente, quando manca una visione collettiva, quando chi deve tenere unito un gruppo lo sfalda, emergono gli istinti peggiori dei singoli, come quelli di chi sui social network e nelle piazze e nei locali o sui mezzi pubblici ha cominciato a negare l’italianità di Balotelli.
Un esempio vergognoso dell’incapacità di essere un Paese unito di fronte alle difficoltà, nel quale la critica a un ragazzo, sicuramente dal carattere non semplice e probabilmente sopravvalutato come giocatore, diventa occasione per la sua emarginazione sociale in base al colore della sua pelle.
Il capitano dell’Italia avrebbe dovuto saperlo e immaginarlo che il suo compagno più esposto sarebbe divenuto capro espiatorio, nudo di fronte alla pubblica gogna, se la squadra lo abbandonava, ma non se ne è interessato.
Sicuramente Balotelli ha fatto molto perché il gruppo lo isolasse, come peraltro era accaduto quando giocava nell’Inter e nelle altre squadre in cui ha militato, ma chi in campo guida la Nazionale ha una responsabilità maggiore e i luoghi deputati e istituzionali dove dire quello che pensa dei propri compagni.
Non lo ha fatto e ha contribuito a dare questa immagine desolante dell’Italia.
Sicuramente Balotelli ora è di fronte a un bivio della sua carriera e della sua vita e deve decidere se intende diventare un grande giocatore, in primo luogo diventando un uomo di squadra, in qualsiasi squadra giochi, e un uomo adulto.
Allo stesso tempo la pubblica opinione dovrebbe pensare che quello che Balotelli pensa e scrive in modo compulsivo sui social network non è così decisivo, ma è importante capire perché lo fa.
Comprendendolo capiremmo perché lo fanno tutti i nostri ragazzi e figli, capiremmo quali sono le paure che li animano e potremmo provare a ridare loro una speranza che oggi paiono non avere.
Balotelli non è e non vuole essere il simbolo di un Paese. E’ un ragazzo come altri, solo più bravo a giocare a calcio e più ricco.
Ma il problema è proprio questo. Se è come gli altri, vuol dire che anche gli altri, o perlomeno molti altri, hanno la stessa supponenza, la stessa superficialità, la stessa insolenza, la stessa indolenza, la stessa mancanza di senso del dovere, la stessa indifferenza al bene collettivo, che sia quello della propria squadra o della comunità in cui vive, lo stesso culto della personalità, la stessa mancanza di visione di un futuro da costruire, perché tutto è concentrato su cosa hanno e devono avere oggi.
Anche questo messaggio ci è giunto dal Brasile e dobbiamo tenerne conto, per costruire insieme un futuro migliore a giovani smarriti, cui bisogna ridare una prospettiva e una speranza.














