12 Giugno 2025 - 9.50

Noi non abbiamo paura della Bomba…

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Umberto Baldo

Ricorderete certamente che, fin dal momento della sua elezione, ho definito Donald Trump un “epifenomeno”, nel senso che non è un’anomalia, un cigno nero della storia. 

Per meglio dire Trump non è la malattia, ma solo il sintomo della profonda crisi che attraversa l’America.

Dalla fine della Guerra Fredda gli Stati Uniti hanno goduto di un momento unipolare: erano l’unica superpotenza rimasta, egemone dal punto di vista economico, militare, culturale e tecnologico. 

Quel momento, oggi, è chiaramente finito. 

Le guerre infinite (Afghanistan, Iraq, Siria) hanno logorato risorse e consenso interno. 

Il tentativo di esportare la democrazia si è spesso tradotto in caos. 

Allo stesso tempo, è cresciuta una consapevolezza interna: gli Usa non possono più permettersi di essere il “gendarme del mondo”, perché i costi superano i benefici.

Da questo malessere deriva la vittoria di Trump, che rappresenta il riflusso isolazionista di una parte significativa dell’elettorato americano, che rifiuta il globalismo, la Nato, gli accordi multilaterali, e preferisce un’America che “si occupa di se stessa” (“America First”). 

A ben guardare anche Biden, pur con toni diversi, aveva tenuto una linea simile: aveva ritirato le truppe dall’Afghanistan, aveva lasciato l’Europa a gestire in prima linea la guerra in Ucraina (fornendo armi, ma senza impegnarsi direttamente), focalizzando sempre più l’attenzione sull’Indo-Pacifico.

Quindi gli americani non vogliono più essere un “Impero”, anche se non sembrano disposti ad abbandonare il loro primato di Paese più ricco e potente del mondo.

In altre parole vogliono gli onori ma non gli oneri.

La conseguenza più immediata, a mio avviso, è che Trump parla di pace anche perché non ha molte alternative.  Perché se oggi gli Usa dovessero fare una guerra contro una grande potenza probabilmente la perderebbero, o comunque sarebbero in grave difficoltà.

E lo hanno scoperto, paradossalmente, in una guerra che non stanno combattendo in prima persona; perché lo scontro armato in Ucraina ha reso palese la crisi dell’industria bellica americana.  Hanno constatato cioè di non avere un livello  adeguato di munizionamento, di avere pochi missili, e soprattutto di avere pochi soldati disposti ad andare a combattere in giro per il mondo, e magari a farsi ammazzare.  

E’ sicuramente un fenomeno anche europeo, ma indubbiamente c’è una quota sempre minore di ragazzi che sente quello che una volta si definiva con enfasi “il richiamo della Patria”

Concentrandomi sull’aspetto militare, credo si possa dire che negli ultimi vent’anni le Forze Armate statunitensi hanno subito un lento logoramento. 

Le guerre asimmetriche (Iraq, Afghanistan) hanno mostrato i limiti del potere militare tradizionale. 

Ma oggi il problema è diventato sistemico: e a giocare sono vari fattori.

Dai costi crescenti (ogni nuovo cacciabombardiere o portaerei costa decine di miliardi), alla “manodopera” in crisi (i giovani americani si arruolano sempre meno; i tassi di obesità, disoccupazione o mancanza di motivazione civile sono alti).

Riassumendo, a cambiare non è solo la politica, ma la struttura stessa del potere: una popolazione che invecchia, una gioventù meno incline al sacrificio e alla disciplina, un’economia iper-specializzata ma vulnerabile, e soprattutto una crescente stanchezza strategica. 

Dopo due decenni di guerre inconcludenti, Washington si ritira. 

Lo fa in modo ambiguo, a tratti contraddittorio, ma il trend è chiaro.

Il problema per noi e per il mondo è che quando il gendarme si ritira, non resta il vuoto, ma il caos. 

Si moltiplicano gli attori che vogliono dire la loro: Cina, Russia, India, Turchia, Iran, Arabia Saudita, ma anche Polonia, Germania, Brasile, Indonesia. 

Un mondo multipolare, come piace a molti geopolitici, ma anche più fragile, più confuso, più pericoloso.

Il punto più critico è appunto il piano militare. 

Gli eserciti convenzionali, ovunque, stanno andando in crisi. 

Non solo negli Usa. 

Come sopra accennato, anche in Europa le risorse scarseggiano, le industrie belliche sono state ridimensionate, e la leva obbligatoria è scomparsa. 

Ma soprattutto: mancano i giovani. 

E se mancano i soldati, la sola alternativa rimasta è la tecnologia. 

O peggio: il NUCLEARE.

Via ragazzi, non saltate sulle sedie, non strappatevi i capelli, non urlate “questo è pazzo!”.

Io mi limito ad osservare fatti, a metterli in relazione, e ad immaginare quali potrebbero essere gli sbocchi eventuali.

E quindi osservo che, per decenni, il Trattato di Non Proliferazione (TNP) ha funzionato come diga. Solo cinque potenze (USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito) detenevano ufficialmente l’arma atomica. 

Altri, come Israele, l’hanno ottenuta nel silenzio del mondo. 

La Corea del Nord la brandisce da tempo come uno scudo.

India e Pakistan si affrontano da decenni con armi convenzionali, ma sono entrambe dotate di arsenali nucleari. 

L’Iran sta da anni sviluppando la tecnologia dell’arricchimento dell’uranio, e sicuramente è quasi sul punto di farsi la “Bomba”.

E’ evidente, solo per fare un esempio, che Usa e Russia non sono certamente favorevoli al nucleare iraniano, perché andrebbe ad alterare gli equilibri dell’intero Medio Oriente, inducendo Arabia Saudita, Egitto e Turchia a dotarsi al più presto dall’arma atomica.  

Ecco perché  la vera domanda oggi è questa: che succede se anche i Paesi “rispettabili” iniziano a riarmarsi?

La Germania, che oggi dipende dall’ombrello nucleare americano, potrebbe un domani decidere di dotarsi di una propria bomba (ha le risorse e la tecnologia).   

La Francia al solo pensiero ha cominciato ad agitarsi.

La Polonia ci pensa già da tempo.  Come accennato, l’Arabia Saudita non accetterà mai un Iran nucleare senza reagire; l’Egitto ha un programma atomico civile che potrebbe cambiare volto. 

E chi potrebbe impedire, in futuro, alla Corea del Sud, o al Giappone, o perfino al Brasile, di fare lo stesso?

Certo anche l’Italia potrebbe avere un proprio interesse al nucleare militare, ma con la botta di “pacifinti” che troviamo fra i nostri Demostene, state tranquilli che noi ci potremmo arrivare solo quando tutti, ma proprio tutti, si saranno armati fino ai denti. 

Mi auguro abbiate capito che io non caldeggio nulla, ma non posso restare silente senza segnalare che il problema è semplice quanto terribile: il potere nucleare non è più un tabù.

In un mondo dove nessuno comanda più, tutti vogliono difendersi da tutti. 

E dove la deterrenza era prima garantita da due blocchi stabili, oggi si moltiplicano i centri di rischio, le ambiguità, le tentazioni.

Stiamo probabilmente entrando in una fase nuova: non più guerra fredda, ma disordine caldo.

Dove non ci sarà una superpotenza a regolare i conti, ma tanti attori pronti a usare la forza, magari in modo limitato, magari con “mini-bombe tattiche”, magari solo per dimostrare che non si scherza.

E l’Europa? L’Europa, come sempre  si risveglia tardi. 

Sprovvista di autonomia strategica, impreparata militarmente, e stretta tra due fuochi, Mosca e Pechino (ma io dico anche Washington), dovrà scegliere se diventare adulta o rassegnarsi all’irrilevanza. 

Senza un riarmo, senza una difesa comune, senza una visione, sarà solo il campo di battaglia degli altri. 

E forse anche qualcosa di peggio.

In conclusione, a mio avviso il vero rischio non è una nuova guerra mondiale in stile 1940. 

È qualcosa di più subdolo: una lunga instabilità fatta di guerre regionali, proliferazione nucleare, e crisi incontrollabili. 

Un mondo in cui la sicurezza non sarà più garantita da alleanze, ma solo dal proprio arsenale. 

Un mondo meno sicuro, meno libero, e decisamente più cinico.

Un mondo dove, se non cambiamo rotta, ogni Stato sarà una piccola Corea del Nord.

Ma non abbiate paura: i nostri Demostene pacifinti non doteranno il Paese di adeguate difese, non costruiranno la Bomba,  ma ci forniranno una adeguata scorta di pastigliette di iodio!!!

Umberto Baldo

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