Maturità, una traccia per accontentare tutti? Illusione da esame

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Umberto Baldo
E’ così ogni anno fin da quando, nell’ahimè lontano 1970, affrontai il temutissimo esame di maturità.
Un esame che fatalmente qualche volta viene rivissuto come un incubo nei sogni notturni, e che ha stimolato le opere di scrittori e registi.
Oggi i giochi hanno avuto inizio con la più classica delle prove, quella che accomuna tutti i maturandi: il tema di italiano.
E anche quest’ anno, puntualmente, si sono ripresentate le solite polemiche.
Si tratta del consueto coro di lamentele, giudizi, confronti e polemiche sulle tracce del tema d’italiano.
Troppo difficile. Troppo banale. Troppo “politico”. Troppo “astratto”. Troppo scolastico, troppo poco scolastico.
Non è la prima volta che le tracce d’italiano scatenano reazioni contrastanti, anzi è sempre stato così.
Basta sfogliare la memoria storica della maturità per trovare esempi rimasti scolpiti. Nel 1983, il tema su «Il ruolo della cultura nella società di massa» fu accolto con entusiasmo da chi leggeva Pasolini e Umberto Eco, ma fu un salto mortale per chi s’era fermato al libro di testo.
Un altro anno si parlò di globalizzazione, e nel 2010 venne proposto il celebre tema sulla «Ricerca della felicità», che suscitò un mix di commozione e ironia.
Ma la vera leggenda resta il tema del 1993 su «I giovani e il futuro»: vago, ampio, apparentemente innocuo – eppure fu vissuto come un trabocchetto da intere generazioni.
Poi ci sono i “casi”: il tema su Dalla Chiesa nel 2012 (apprezzato per l’attualità), la traccia sul falso in arte e in letteratura del 2014 (intellettualmente stimolante, ma giudicata “da accademici”), fino alla comparsa di autori moderni come Umberto Eco, Claudio Magris, e perfino brani di analisi del testo tratti da saggi sociologici, che lasciarono perplessi molti liceali abituati a Dante e Manzoni.
Non penso neppure lontanamente di addentrarmi sui contenuti delle tracce assegnate stamani alle otto con la mitica apertura delle “buste ministeriali”.
Per me non ne vale la pena perché è un gioco delle parti che conosciamo bene, ma che secondo me dovrebbe suggerirci dice qualcosa di più profondo: l’impossibilità, strutturale, di accontentare tutti.
La ragione è semplice, persino ovvia: ogni studente è un mondo a sé.
Ci sono ragazzi appassionati di filosofia e altri che non hanno mai digerito un Kant o un Nietzsche.
Alcuni divorano romanzi e poesia, altri leggono solo le notifiche di TikTok.
Ci sono studenti che a scuola hanno avuto docenti formidabili, altri meno fortunati.
E poi ci sono le differenze geografiche, sociali, culturali, come ci ricordano impietosamente i dati Invalsi.
Pensare che un’unica prova possa parlare a tutti allo stesso modo è una pia illusione.
Il Ministero (come hanno sempre fatto tutti i Ministeri, di qualunque colore) fa quello che può: propone tracce diverse, cerca di bilanciare, di dare spazio a sensibilità differenti.
Ma il risultato è sempre lo stesso: ogni scelta lascia fuori qualcuno e l’amaro in bocca a qualcun altro.
Perché, diciamolo, non esistono più (ammesso che siano mai esistiti) temi “universali”, che vadano bene per lo studente del liceo classico di Torino come per quello dell’istituto tecnico di Reggio Calabria.
C’è poi l’aspetto psicologico, da non sottovalutare.
La maturità è una prova carica di attese e pressioni. I ragazzi sanno che quello che scriveranno sarà valutato, pesato, giudicato. Alcuni si bloccano, altri si agitano, altri ancora si arrendono.
E il tema – che in teoria dovrebbe essere il momento in cui uno dà il meglio di sé – diventa spesso un’ulteriore fonte di ansia.
Il timore di “scegliere male” può paralizzare più delle difficoltà della scrittura stessa.
Eppure continuiamo a stupirci, ogni anno, come se fosse la prima volta.
Continuiamo a giudicare le tracce come se fossero loro, e solo loro, il problema.
Ma forse è l’esame in sé, la sua impostazione, la sua pretesa di misurare tutto e tutti con lo stesso metro, a dover essere messa in discussione. O almeno guardata con più realismo.
In fondo, se ci pensate bene, è il destino di ogni prova pubblica.
Succede nei concorsi, nei quiz universitari, nelle selezioni per un impiego.
Appena compare un testo uguale per tutti, diventa evidente quanto siamo diversi.
E questa diversità, invece di essere riconosciuta come un valore, inevitabilmente si trasforma in frustrazione.
Il tema perfetto, per tutti, non esiste, e non è detto che debba esistere.
Forse bisognerebbe solo smettere di chiedergli troppo.
È già tanto se riesce a non fare danni.
Umberto Baldo