L’Italia dei giovani è un “Paese in fuga”

Umberto Baldo
Troppo impegnati a discutere di quanti stranieri possano entrare o meno nel nostro Paese, i nostri Demostene non si accorgono che un altro dramma, dal punto di vista economico naturalmente, riguarda i cittadini italiani che da questo Paese se ne vanno.
D’altronde credo lo abbiano capito anche i sassi che la politica si accapiglia su argomenti che rappresentano “distrazioni di massa” per non discutere di temi veri, che sono l’economia asfittica, in un Paese immobile e poco produttivo in cui le riforme tanto evocate assumono sempre i caratteri di un’Araba Fenice.
Ed in questa distorsione della realtà, in questo gioco di specchi, destra e sinistra vanno a braccetto, la prima per nascondere che il “Paese di bengodi” promesso in campagna elettorale è solo un sogno per gonzi creduloni, la seconda per non affrontare i nodi della società attuale, scatenando battaglie su temi ideologici come ad esempio i centri per migranti in Albania di cui non frega niente a nessuno.
Ne risulta un Paese in cui si levano urli di gioia quando si riesce a crescere di uno “zero virgola”, e non ci si accorge, o non si vuole accorgersi, che l’unico dato in costante crescita è quello del numero dei ragazzi che se ne vanno.
Ma non siamo “aaa Nazzzziiiiioooone” più bella del mondo”? Quella dell’ “Open to Meraviglia”? Aaa Naaaazzziiiooonne dove si mangia meglio al mondo, quella con più sole, più mare, più bellezza?
Può anche essere per alcuni aspetti, ma per altri, che condizioneranno non le vite di chi ha ormai la mia età, ma di quelli che verranno dopo, non si può non prendere atto che l “Italia è un paese in fuga”.
Non è la prima volta che ve ne parlo (https://www.tviweb.it/pillola-di-economia-in-otto-anni-sono-espatriati-40-000-giovani-laureati-veneti/) – (https://www.tviweb.it/litalia-compreso-il-veneto-continua-a-regalare-i-giovani-migliori-agli-altri-stati/), ma i dati sono sempre più impietosi, e non mi capacito come una classe politica che si dice interessata al futuro non se ne renda conto, e non se ne preoccupi.
Cosa dicono questi dati?
Che nel 2004 (fonte Istat) i giovani che lavoravano erano 7,6 milioni, scesi oggi a 5,4 milioni (sì in vent’anni abbiamo perso per strada 2,1milioni di under 34 occupati).
Ma allora perché l’occupazione cresce?
Per il fatto anomalo che crescono i lavoratori nella fascia 50-64 anni, passati dai 4,5 milioni del 2004 ai 9milioni attuali.
Per carità non è questo sia un male; l’occupazione che cresce è sempre un fattore positivo. Ma se i nuovi occupati sono persone con i capelli grigi, naturalmente meno orientati all’innovazione, e quindi alle sfide epocali che le moderne tecnologie impongono, allora capite bene che il problema c’è, ed è serio.
Perché, inutile nasconderlo, le economie avanzate che crescono di più sono proprio quelle che coinvolgono ed includono maggiormente le nuove generazioni nei processi decisionali e di sviluppo.
Come accennato, sarebbe sbagliato ed anche ingiusto additare come responsabile questo Governo, perché il problema delle “culle vuote”, del calo demografico, è stato sottovalutato da tutti i Governi degli ultimi decenni, a parte qualche timido tentativo di metterci una pezza, naturalmente abortito.
Ma l’ignoranza, l’incapacità di leggere i fenomeni sociali, con l’aggravante che qui parliamo di numeri, ed i numeri dovrebbero essere di facile lettura per gente che pretende di governare un Paese moderno, secondo me trova la sua sublimazione ad esempio nel fatto che ogni anno assistiamo alla lotta dei Sindacati della scuola per nuove infornate di insegnanti, quando, secondo stime accreditate, nei prossimi 15-20 anni ci troveremo di fronte a circa 10mila edifici scolastici “disabilitati” da riutilizzare in qualche modo.
Per certi versi la situazione italiana sembra un libro di Kafka.
Da un lato abbiamo gli imprenditori che da anni lamentano le difficoltà a trovare lavoratori preparati, quantificando un fabbisogno di almeno 120mila lavoratori stranieri l’anno per prossimi 5 anni (1,3milioni secondo l’Istat da qui al 2028), dall’altro è in corso una epocale “fuga di cervelli” dal nostro Paese.
Qui parliamo dei nostri figli e dei nostri nipoti, che in 550mila dal 2011 al 2023 hanno scelto di cercare il proprio futuro in altri Paesi.
Si tratta ovviamente di ragazzi per la più parte laureati, nei quali lo Stato ha impegnato fior di risorse per farli studiare, che non vedono il proprio futuro in Italia, e così decidono di andare in Paesi in cui si aspettano sia garantita più meritocrazia (l’Italia è notoriamente il Paese meno meritocratico d’Europa), e soprattutto dove ci siano maggiori possibilità per fare meglio il proprio lavoro, e fare carriera in un ambiente trasparente.
Intendiamoci, non voglio certo offendere coloro che scelgono invece di restare nei patrii confini, ma non possiamo nasconderci che quelli che perdiamo sono i migliori, coloro che sarebbero fondamentali per la crescita del paese (quelli che decidono di rimanere, semplicemente scelgono di accontentarsi di quel che passa il convento Italia).
Ma questa fuga, e soprattutto il saldo fra i giovani italiani che emigrano e i giovani stranieri che vengono a lavorare in Italia evidenziano chiaramente, oserei dire brutalmente, al di là di tutti i discorsi, degli slogan, dei “siamo i più bravi”, che l’Italia è un Paese poco attrattivo.
D’altronde ci sarà un motivo se per ogni ragazzo straniero che sceglie il Belpaese come sede di lavoro, si stima ci siano otto ragazzi italiani che valicano le Alpi.
Basta che facciate qualche ricerca in rete, e fra innumerevoli studi autorevoli scoprirete che l’Italia è il Paese meno attrattivo per i giovani europei, al contrario ad esempio della Svizzera e della Spagna.
Va inoltre segnalato che il numero delle uscite dei giovani italiani verso il resto d’Europa secondo alcuni è molto probabilmente tre volte più numeroso di quanto stimato finora, e arrivi ad una popolazione di 1,3 milioni di persone nell’ultimo decennio.
Dato che non deve sorprendere, perché non tutti i ragazzi che se ne vanno hanno l’accortezza di registrarsi presso l’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, mantenendo così la residenza italiana.
Così, sulla base dei dati di Eurostat, l’agenzia statistica europea, si può stimare che, per ogni giovane che viene a stabilirsi in Italia da un altro Paese europeo, ci sono diciassette giovani italiani che espatriano verso il resto dell’Unione europea o in Gran Bretagna.
Voglio sgombrare il campo da qualche retropensiero.
Fin dal Medioevo andare all’estero per studiare, lavorare, scoprire culture diverse, confrontarsi con altri popoli, si è sempre fatto. Ed io la considero una prassi da incentivare e non certo da contrastare, perché lo scambio fra culture, a partire dall’Erasmus, vuol dire comunque arricchire il proprio bagaglio personale.
Il problema si pone quando tutto ciò non è più frutto di una scelta libera, ma di una scelta obbligata dalla impossibilità per i ragazzi di trovare sistemazioni e prospettive di vita adeguate al proprio livello di studi ed alla proprie ambizioni.
E mi dispiace essere tranchant al riguardo, ma per ridare fiducia a queste generazioni, il Paese andrebbe davvero risvoltato come un calzino.
Lo so bene che in tutta Europa la crisi da Covid ha colpito maggiormente i giovani, ma non si può sottacere che in Italia il tasso di occupazione giovanile era già molto basso prima della stessa, e l’impatto della recessione è stato ancor più duro proprio su tale fascia della popolazione.
In altre parole la scarsa valorizzazione del capitale umano dei giovani non è una emergenza recente, ma una persistenza che dura da decenni.
Concludendo, non vi nascondo che parlo sempre con tristezza di questi fenomeni, perché sono convinto che qualcosa di più la politica avrebbe potuto fare in questi ultimi anni.
Ma credo sia opportuno segnalare che se la fuga dei ragazzi dovesse continuare a questi ritmi anche nell’immediato futuro, allora, coma dicono a Roma “so’ cazzi amari”.
Perché?
Perché secondo le stime contenute in un recente aggiornamento del Rapporto della Ragioneria Generale dello Stato sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico, (elaborate sulla base delle previsioni demografiche dell’Istat con base 2023), fra poco più di 50 anni, nel 2080, ci sarebbero ben 312 anziani ogni 100 giovani.
Un dato agghiacciante, che da solo misura l’evoluzione quasi parallela dei rischi di restringimento del bacino domestico collegato al mercato del lavoro, e di quelli relativi alla sostenibilità del sistema previdenziale (ed io sostengo dell’intero sistema del welfare nel suo insieme, sanità in primis).
Sia chiaro che fenomeni come il calo della popolazione, e l’emigrazione dei giovani, non si risolvono in tempi brevi.
Ma una cosa è certa: non si risolvono sicuramente facendo finta di niente!
Umberto Baldo