La politica estera è amorale. Trump Al Jolani e la stretta di mano della vergogna

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Ho già avuto modo di dirvi che noi ci eravamo illusi.
Illusi che, dopo la tragedia della Seconda Guerra Mondiale, l’umanità avesse finalmente imparato la lezione. Che Auschwitz, Hiroshima, Stalingrado fossero nomi così carichi di orrore da renderci immuni alla follia della guerra. Che la nascita dell’ONU, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, delle Istituzioni sovranazionali come il Tribunale Penale Internazionale, segnasse un punto di svolta irreversibile.
Illusi, si. Perché oggi ci accorgiamo che la storia dell’uomo non è cambiata. Che la geopolitica è tornata a muoversi secondo le vecchie logiche della forza, del dominio, della paura.
Che la legge del più forte, che pensavamo relegata ai secoli bui, è tornata prepotentemente sulla scena. E con essa torna ad imporsi l’amara lucidità di Machiavelli.
Il segretario fiorentino non fu né cinico né crudele: fu, semmai, onesto.
Mostrò ciò che la politica è, non ciò che dovrebbe essere.
Scriveva in tempi feroci, ma la sua diagnosi sembra adattarsi anche a questi nostri giorni.
Quando Putin invade l’Ucraina e il mondo si divide tra chi condanna e chi chiude un occhio.
Quando Israele e Palestina si consumano nel sangue, tra ragioni storiche e ciniche convenienze.
Quando le grandi potenze giocano a Risiko con le vite altrui.
E quando l’Europa, culla del diritto e della diplomazia, scopre di essere fragile, divisa, spesso irrilevante.
La guerra, oggi, non è più l’eccezione, ma torna a essere uno strumento ordinario della politica.
Non ci sono più dichiarazioni solenni, ma “operazioni speciali”, “missioni umanitarie”, “difese preventive”.
Cambiano i nomi, ma non la sostanza. E le istituzioni internazionali, ONU, UE, Corte dell’Aia , appaiono spesso impotenti, paralizzate dai veti incrociati e da interessi divergenti.
Forse il nostro errore è stato quello di attribuire a quelle Istituzioni un potere quasi magico: come se bastasse scrivere un trattato per cambiare la natura umana.
Ma le Istituzioni sono strumenti, non miracoli. E senza una cultura della pace condivisa, senza una visione politica all’altezza della sfida, rischiano di essere solo carta.
La pace, diceva Bobbio, “non è solo l’assenza di guerra, ma un sistema di valori da costruire giorno per giorno”.
Ma chi li coltiva più, quei valori?
E allora sì, forse Machiavelli aveva ragione. Non in senso morale, ma in senso realistico.
La politica, soprattutto quella internazionale, si muove ancora secondo le regole della forza, dell’interesse, della paura.
E chi si illude che basti l’indignazione a fermare i carri armati, dovrebbe rileggere Il Principe.
Non per condividerlo, ma per capirlo.
Forse oggi più che mai avremmo bisogno di una politica che non sia solo etica degli ideali, ma anche etica della responsabilità.
Che non si limiti a dire “la guerra è ingiusta”, ma si chieda come prevenirla davvero, con quali strumenti, con quale coraggio.
Perché la storia ci ha già mostrato cosa accade quando l’illusione prende il posto della lucidità.
C’è una foto che sintetizza l’ipocrisia del nostro tempo; Donald Trump che durante il suo viaggio di questi giorni in Medio Oriente stringe la mano presidente ad interim della Siria, Ahmed al Sharaa (al Jolani), l’ex leader del gruppo Hayat Tahrir al Sham, formalmente ancora incluso dal Governo Usa nella lista dei gruppi terroristici.
Chi è al Jolani?
In estrema sintesi un assassino che ha iniziato la sua carriera di tagliagole massacrando i Marines di Bush in Iraq, un membro di primo piano di Al Queda e dell’Isis, uno che l’11 settembre ringraziò Dio per avere spazzato via così scenograficamente una cospicua manciata di miscredenti made in Usa.
Un leader terrorista su cui pendeva una taglia di 10 milioni di euro (su Bin Laden, l’ispiratore, il riverito maestro, ne pendeva una da 25), e che la “realpolitik” del Tycoon ha ammesso nel salotto buono dell’Occidente.
Senza che dal mondo si levi un grido di protesta, di orrore, per quella stretta di mano a chi fino a qualche mese fa guidava le truppe d’assalto del fanatismo islamico, ad un apostolo di quel jihadismo che vuole annientare il nostro mondo.
È proprio vero: la politica internazionale è, nel suo profondo, amorale
E quei due uomini sorridenti, Trump e al Jolani, ne sono la prova vivente.
Un tempo nemici, oggi, forse, alleati di circostanza.
Come se tutto ciò che è accaduto fosse acqua passata, parte di un vecchio copione da dimenticare.
In nome di cosa? Della “stabilità regionale”? Della lotta all’Iran? Del contenimento del terrorismo islamista?
Via, diciamolo chiaramente: in nome dell’interesse, nudo e crudo.
Quello che un tempo si chiamava “realpolitik” e oggi si chiama “diplomazia pragmatica”, ma che in sostanza è sempre la stessa cosa: trattare con chi conviene, non con chi ha ragione.
Lo hanno fatto in tanti.
Gli Stati Uniti hanno trattato con Stalin per sconfiggere Hitler.
Nixon strinse la mano a Mao mentre la Cina mandava milioni di persone nei campi di rieducazione.
Biden ha negoziato con i Talebani, dopo vent’anni di guerra e decine di migliaia di morti (le donne e le ragazze afgane sono solo un incidente di percorso, una conseguenza spiacevole, ma per Lor Signori tutto sommato accettabile).
E la nostra Europa, a sua volta, fa affari con chiunque garantisca gas, petrolio o controllo sui flussi migratori, dalla Turchia di Erdogan alla Libia dei miliziani.
E così la stretta la mano al sedicente Presidente siriano finisce per non stupire nessuno, perché è la normalizzazione dell’anormalità: oggi basta che qualcuno sia “utile”, e le stragi, il terrorismo di Stato, le torture, vengono dimenticate in fretta.
Dov’è la coerenza? Dov’è la morale?
Non ci sono.
Perché la politica internazionale non ne ha bisogno.
È un gioco di potere, non un tribunale etico.
I diritti umani servono a colpire i nemici, non gli amici.
Le sanzioni si danno a chi è debole, non a chi è utile. La memoria è corta, cortissima. E la vergogna, spesso, inesistente.
La verità è che il cinismo è diventato la lingua franca delle relazioni internazionali.
I leader non sono più giudicati per quello che fanno, ma per quello che rappresentano nel disegno strategico globale.
Al Jolani può tornare utile?
E allora si chiude un occhio, o anche due.
Così come si chiude su Mohammed bin Salman dopo l’omicidio Khashoggi, o su Al-Sisi in Egitto, o su Netanyahu mentre rade al suolo Gaza.
Potremmo indignarci. Ma sarebbe un’indignazione ipocrita. Perché, se c’è una regola costante nella storia della politica estera, è questa: la coerenza morale è un lusso che nessuna grande potenza può permettersi.
Il problema, però, è che questa doppia morale mina le fondamenta della credibilità occidentale.
I cittadini lo vedono, lo capiscono.
E smettono di credere nella politica, nella democrazia, perfino nella giustizia.
Perché se tutto è relativo, se tutto è negoziabile, allora nulla vale davvero.
E ci si rifugia nel disincanto, o peggio, nell’indifferenza.
E così quella stretta di mano non è uno scandalo: è una fotografia onesta della realtà.
Una realtà che fa male, ma che è bene guardare in faccia.
Perché solo riconoscendo il cinismo della politica estera possiamo iniziare a pretendere qualcosa di diverso. Anche se, a essere sinceri, non ci crede più nessuno.
Che fare, allora? Forse nulla.
Perché questa è la politica internazionale, da sempre.
Machiavelli l’aveva già capito nel ‘500, quando scriveva che un principe deve sapere “non essere buono” se vuole conservare lo Stato.
E non c’è convegno di diplomatici o manifestazione umanitaria che possa cambiare le leggi spietate della geopolitica.
Ma almeno una cosa possiamo farla: non fingere di non vedere. Non raccontarci favole. Non credere che esista davvero una “comunità internazionale” guidata da valori comuni.
Esiste solo un mondo di interessi, alleanze temporanee e compromessi opachi.
E forse la vera rivoluzione è proprio questa: chiamare le cose col loro nome.
Dire che al Jolani è un terrorista, anche se lo si incontra.
Dire che quella stretta di mano è vergognosa, anche se serve a qualcosa.
Perché solo chi ha il coraggio della verità può ancora rivendicare un briciolo di dignità.
Umberto Baldo
PS: badate bene che la strada maestra non è comunque quella di seguire i pifferai magici, come Conte o Salvini, che a mio avviso si mostrano pacifisti gandhiani per meri motivi di politica interna (per la serie: per qualche voto in più!).
Perché purtroppo essere pacifisti serve a poco contro chi crede che i rapporti internazionali debbano basarsi sulla forza degli eserciti.