“Dagli amici mi guardi Iddio, che dai nemici mi guardo io”. Nei partiti è scomparsa la democrazia

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Umberto Baldo
Se dovessi indicare una caratteristica che accomuna tutti i partiti italiani non avrei alcun dubbio; la carenza del dissenso.
Guardate che non si tratta né di amarcord, né di rimpianti della politica come si faceva nei miei anni verdi.
La cosa è ben più seria, perché comunque la si pensi ha a che fare con la democrazia.
Una volta i Partiti erano microcosmi della società, con correnti, dibattiti accesi, congressi infuocati, e mediazioni spesso laboriose.
Nel Partito Socialista, ad esempio, si confrontavano riformisti e massimalisti. Nel Partito Comunista convivevano togliattiani, ingraiani, miglioristi. La Democrazia Cristiana era una costellazione di correnti che andava dai fanfaniani ai basisti, dai dorotei ai morotei.
Ogni congresso era una vera espressione di democrazia partecipata, con mozioni, dibattiti, conteggi congressuali, tesseramenti discussi, e congressi di sezione che erano palestre di partecipazione.
Si discuteva, ci si accapigliava, si votavano mozioni, si trattava fino all’alba. E alla fine, comunque fosse andata, si costruiva, si cresceva.
Era la politica vera, fatta di confronto e conflitto; ma anche di rispetto.
La politica in cui il Segretario Nazionale sapeva (e temeva) di dover ogni tre/quattro anni confrontarsi in una assise congressuale per verificare se la propria leadership fosse ancora gradita ed appoggiata.
Oggi, tutto questo è sparito. I Partiti sono diventati organismi piatti, verticali, silenziosi.
Non si vedono più congressi veri, non si sentono più voci discordi.
Tutti allineati, tutti fedeli, tutti stretti attorno al leader, come in una corte settecentesca.
Chi prova a dissentire viene emarginato, ridicolizzato, o gentilmente accompagnato alla porta.
Forse forzando un po’ la mano, io la chiamo “fascistizzazione della forma-partito”, senza bisogno di nostalgie littorie: un processo di verticalizzazione estrema, dove la democrazia interna è vista come fastidio, il dissenso come minaccia.
Oggi, paradossalmente, i Partiti sembrano monoliti leaderistici, ma in realtà sono vuoti di democrazia interna.
L’apparente unità è spesso il frutto di silenzio, apatia o controllo verticistico.
Le decisioni le prende il Capo, o una cerchia ristretta, e i Parlamentari diventano “nominati” senza vincoli con il territorio o con una base militante.
Guardate che lo so bene, per averli vissuti, che non è che ai “vecchi tempi” fossero tutte rose e fiori.
Certo, le correnti potevano degenerare in lottizzazione, in scontri di potere fini a se stessi, in spartizione di poltrone.
Ma ciò non toglie che la loro esistenza fosse il riflesso di una tensione democratica interna, di un confronto che era anche culturale e ideale.
E se ci riflettete bene l’abolizione delle correnti non ha portato più unità: ha prodotto conformismo, opacità, povertà culturale.
Ma soprattutto un ceto politico senza radici e senza visione.
Forse, più che demonizzare le correnti, bisognerebbe tornare a pretendere Partiti dove queste differenti posizioni possano manifestarsi alla luce del sole.
Perché in ogni democrazia vera, il dissenso è una risorsa, non un pericolo; perché senza dissenso non c’è selezione della classe dirigente, non c’è innovazione, non c’è vita.
C’è solo la ripetizione ossessiva della linea ufficiale, come nelle aziende familiari dove il Capo ha sempre ragione; finché non crolla tutto.
In altre parole viviamo un’epoca in cui tutto è appiattito, dove si cerca il consenso immediato, non la costruzione paziente, dove il leader si circonda solo di fedeli, e i cittadini diventano spettatori.
Badate bene che i Partiti sono diventati contenitori vuoti non perché ci siano stati “colpi di stato” dei Laeder.
Tutto ciò è stato il frutto di un processo, in cui hanno giocato vari fattori.
A partire dalla mediatizzazione della politica: oggi il consenso si costruisce in TV e sui social, e serve una figura forte, riconoscibile, capace di slogan, non di mediazioni.
Senza trascurare il declino della militanza, nel senso che i Partiti non sono più strutture vive sul territorio, ma comitati elettorali guidati da pochi.
Da considerare poi la crisi della rappresentanza: l’elettore è disilluso e disinteressato ai processi interni; vuole “decisionismo” e risultati.
Per finire con le leggi elettorali maggioritarie o semi-maggioritarie, che spingono alla semplificazione, e penalizzano il pluralismo interno.
Il risultato è paradossale: i Partiti, che dovrebbero essere strumenti di partecipazione democratica, si sono trasformati in strutture oligarchiche, dove la selezione della classe dirigente avviene per cooptazione.
I pochi che provano a proporre idee alternative vengono delegittimati o ridicolizzati.
E questo vale tanto per i Partiti “nuovi” quanto per quelli “storici”.
Dal Movimento 5 Stelle, che pure si proclamava orizzontale, alla Lega, fino al Partito Democratico o a Fratelli d’Italia, tutti oggi mostrano una intolleranza profonda al dissenso.
Ma se questa è la fotografia, allora a cosa si riduce la politica?
Semplice, ad una lotta fratricida.
A destra, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia si guardano in cagnesco, anche quando governano insieme. A sinistra, il PD fatica da decenni a tenere insieme anime diverse, mentre viene insidiato costantemente da forze come il M5S, Azione o i Verdi, tutti in cerca dello stesso spazio nel cuore dell’elettore “progressista” o “riformista”.
Il risultato è che il vero nemico non è più l’avversario politico.
Il vero pericolo, per un leader, è il collega di coalizione che trama, sussurra, si candida, smentisce, rilancia.
È l’amico che ti frega con il sorriso.
La saggezza popolare sintetizza tutto questo con efficacia: “Dai nemici mi guardi Iddio, che dagli amici mi guardo io”.
Perché sono proprio gli “amici”, i compagni di coalizione, i partner di governo, a rappresentare il rischio maggiore per la stabilità politica
E non per malafede, ma per mero calcolo elettorale.
Perché, in fondo, pescano nello stesso stagno. E quando il pesce scarseggia, si litiga anche per una trota.
E allora via libera a chi la spara più grossa, a chi assume le posizioni più estreme, al solo fine di influenzare un elettorato sempre più incattivito, e sempre meno abituato alla riflessione pacata.
Il risultato? Campagne elettorali in cui i Partiti si azzannano non per valori, ma per quote di mercato elettorale.
Governi che nascono e muoiono non per differenze ideologiche, ma per rancori personali.
E noi cittadini che si ritroviamo a votare coalizioni già implose prima ancora di entrare in Parlamento.
Più che una competizione tra idee, sembra un reality show: chi litiga meglio, chi esce dal gruppo, chi fonda un nuovo Partito con la parola “Italia” nel nome (una moda irresistibile).
Intanto i problemi del Paese aspettano pazienti… tanto loro non hanno fretta.
Umberto Baldo