13 Giugno 2025 - 9.40

Condoni fiscali e rottamazioni. L’etica al macero

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Umberto Baldo

ll rapporto fra etica e politica è sempre stato, fin dall’antichità, un rapporto difficile, di contrapposizione e di convergenza assieme. 

E’ abbastanza diffusa l’idea che la politica, per sua stessa natura, sia immorale. 

E molto spesso, osservando  il comportamento  dei politici, abbiamo l’impressione che ciò sia vero.

Senza necessariamente tirare in ballo Machiavelli, che ha teorizzato che la politica debba essere tenuta distinta dall’etica e dalla religione, viene da chiedersi come ciò sia possibile.

La verità è che il rapporto fra etica e politica è molto più complesso di quanto si creda. 

Tanto che non poche volte, nella storia, nel nome dell’etica, degli ideali di giustizia, e perfino di libertà, si sono commesse tragiche nefandezze, per costruire società perfette, per rispettare volontà generali,  talvolta sacrificando uomini e donne in carne ed ossa.

Tranquilli, non ho intenzione di intrattenervi si temi filosofici, e forse vi stupirete dove voglio portarvi con i miei ragionamenti, ma vedrete che l’etica c’entra, eccome se c’entra. 

Finalmente anche la premier Giorgia Meloni sembra aver capito che il salto di aliquota dal 23 al 35% è iniquo, ma come sempre accade in Italia, in questi giorni lo scontro sul fisco è diventato plateale ed alla luce del sole, con Lega e Forza Italia su fronti opposti nella partita tra la rottamazione delle cartelle ed il taglio delle imposte al ceto medio.

Solo per chiarire, Matteo Salvini, pacifista in tutto, fisco in primis, rilancia continuamente sulla sanatoria decennale delle cartelle (si avete capito bene, decennale, 120 rate),  mentre Antonio Tajani ricorda l’esigenza di tagliare di due punti l’aliquota Irpef per i redditi da 28 mila a 50 mila euro, al fine di avere una curva della progressività Irpef che non equipari di fatto il ceto medio a milionari.

Vedremo qual è il vero peso politico e personale della Premier in questo match che io considero prima di tutto “etico”.

Perché l’etica in politica ha un senso solo quando lo Stato tratta i cittadini con equità. 

Equità non vuol dire uniformità: la progressività fiscale è uno dei capisaldi delle democrazie moderne. Chi ha di più, contribuisce di più. Non è un principio punitivo, ma redistributivo. Serve a tenere insieme la società, non a dividerla.

La verità è che nella “Repubblica di Pulcinella” non si fa più politica fiscale da decenni. 

Si fa psicologia di massa. 

Ogni volta che si parla di “pace fiscale”, “rottamazione”, “saldo e stralcio”, si sventola il vessillo del “buon cuore istituzionale”. 

Lo Stato che capisce, che tende la mano, che non vuole infierire. 

Tutto molto nobile, all’apparenza. 

Ma sul piano etico, e perfino politico, si sta giocando una partita assai più sporca.

Perché diciamolo senza giri di parole: non è eticamente accettabile trattare allo stesso modo chi ha sempre pagato fino all’ultimo centesimo e chi ha scelto di non farlo. 

Metterli sullo stesso piano non è equità, è una beffa, è la resa dello Stato.

Chi si è comportato con onestà, spesso pagando tasse salate, affrontando burocrazie ottuse, rinunciando a scorciatoie facili, da tanti anni si sente preso in giro. 

E a ragione! 

Perché mentre si parla di ridurre di un paio di punti l’aliquota al ceto medio, dall’altra parte si amplia la possibilità di spalmare debiti fiscali in 120 comode rate, in nome di una “pace fiscale” che, alla prova dei fatti, è solo una scorciatoia elettorale.

Ma che pace è quella che umilia i cittadini ligi e premia i furbi?

Che idea di Stato stiamo coltivando? 

Uno Stato che educa alla legalità, o uno che si rassegna a gestire l’illegalità come fosse fisiologica?

E’ prima di tutto un danno culturale, perché la cultura del condono ha prodotto un danno profondo nel tessuto civico del Paese. 

Ha diffuso un’idea pericolosa: che in fondo convenga non pagare subito, perché prima o poi lo Stato verrà a patti, che il rispetto delle regole sia da ingenui, che l’etica fiscale sia roba da fessi.

E mentre il contribuente onesto continua a essere spremuto come un limone, chi ha evaso per anni si vede proporre l’ennesimo sconto, il concordato preventivo (sic!), la solita sanatoria, l’ultima rottamazione “a tempo limitato” (che poi viene sempre prorogata). 

È come se, in una corsa ciclistica, il primo venisse penalizzato perché ha pedalato troppo bene, e l’ultimo premiato perché ha tagliato per i campi.

Il problema, e lo sottolineo con forza, prima che economico, è morale. 

Non si può costruire una comunità civile senza una scala di valori condivisi. 

E non c’è giustizia fiscale senza memoria e coerenza. 

Se lo Stato si dimentica dei sacrifici di milioni di contribuenti per strizzare l’occhio a chi ha eluso o evaso, tradisce la propria funzione di garante dell’equità.

La progressività delle imposte, prevista dall’art. 53 della Costituzione, è sacrosanta. 

Ma va accompagnata da un principio altrettanto sacro: la certezza del dovere fiscale. 

Senza questa certezza, tutto si riduce a un gioco di illusioni.

Può girarci attorno finché vuole Matteo Salvini, ma quella che tenta di venderci come “pace fiscale” è, in realtà, la resa dello Stato alla furbizia sistemica, ed una strizzata d’occhio di certa politica ad evasori ed elusori, a gente che vive sulle spalle di chi le tasse le paga veramente.

Ed in questa resa ci rimettono tutti: i conti pubblici, la credibilità delle Istituzioni, e soprattutto i cittadini per bene.

Chi ha sempre fatto il proprio dovere, nonostante tutto, e spesso contro tutto, ha diritto a qualcosa di più di un grazie. 

Ha diritto ad uno Stato che abbia memoria, rispetto, e coraggio etico.

Altrimenti non si chiama pace.

Si chiama diserzione morale.

Umberto Baldo

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