6 Giugno 2022 - 10.09

Abbigliamento a scuola: l’abito fa il monaco?

di Umberto Baldo

“La scuola ha anche il dovere di insegnare la buona educazione. Quando usciranno da qui, si presenteranno ad un colloquio di lavoro con l’ombelico di fuori? Era di questo che volevo discutere con loro: dell’opportunità di adeguare l’abbigliamento al contesto in cui si trovano, di distinguere tra libertà e decenza”.
Questo un passaggio di una delle tante interviste rilasciate dalla professoressa Maria Rosa Puleo, Preside del Liceo Fogazzaro di Vicenza, a commento delle motivazioni che hanno spinto 300 studenti a scioperare contro le affermazioni, a loro dire, sessiste, “grassofobiche”, volgari e paternalistiche, che sarebbero state pronunciate dalla dirigente nei confronti di alcune allieve.
Di questi fatti, dello sciopero, della solidarietà degli studenti di altri Istituti berici, quali il Liceo Pigafetta e Quadri (con l’avvertenza che quando c’è da perdere un giorno di scuola si trova sempre chi si accoda) hanno ampiamente riferito nei giorni scorsi giornali e media, per cui non mi soffermo sulle schermaglie, sulle accuse e contro accuse, sugli slogan, che hanno occupato le cronache nei giorni scorsi.
Non è mia intenzione, in estrema sintesi, decidere chi ha torto e chi ha ragione!
Vorrei invece partire soffermandomi sulla frase della Preside che ho riportato iniziando questo pezzo, quello del dovere della scuola di insegnare la buona educazione anche in vista dell’inserimento futuro di questi ragazzi nella vita lavorativa.
Ed al riguardo non ho potuto non pensare ad un episodio di parecchi anni fa in cui per motivi di lavoro stavo facendo dei colloqui iniziali a giovani laureati in vista di una selezione per una loro eventuale assunzione in Banca.
Fra la ventina di ragazze e ragazzi che esaminai in quella giornata ne ricordo in particolare un paio.
Quello di un ragazzo che si presentò indossando un paio di pantaloni con il cavallo all’altezza delle ginocchia, ed un altro con una improbabile salopette.
Ovviamente non feci alcun commento, ma alla fine, dopo aver chiuso il colloquio, scrissi sulla scheda relativa a ciascuno dei due soggetti la frase “palesemente inadatto”.
Inutile dire che la selezione per loro si fermò in quel momento.
Lo so già che molti di voi penseranno che sono un superficiale che si fa condizionare dall’aspetto esteriore, che ognuno è libero di vestirsi come vuole, e che magari ho perso l’occasione di assumere un genio della finanza.
Potrebbe essere anche tutto vero, ma in quel ruolo io dovevo fare una scelta, per quanto iniziale, ed il ragionamento che mi guidò fu “ma se questi si presentano così conciati al colloquio da cui può dipendere un’assunzione a tempo indeterminato in Banca, una volta assunti e confermati in pianta stabile dopo i tre mesi previsti contrattualmente, con quale mise si potrebbero presentare allo sportello?”
Nel dubbio preferii non fare correre alcun rischio alla mia Banca.
Questo per dire che siamo stati tutti giovani (io addirittura negli anni del ’68), e che la trasgressione anche nell’abbigliamento fa parte della fase adolescenziale, ma che ci sono dei limiti invalicabili che derivano dal buon gusto e dalla serietà, oltre che confini ben precisi fra libertà e decenza.
Per cui, datemi anche del reazionario, del matusa, dello sclerotico, ma io resto dell’idea che un conto è come si va vestiti in spiaggia, ed un altro in un’aula di Liceo.
Certo le polemiche su alcune metafore un po’ crude che sarebbero state usate dalla Preside (“Se una ha un bel culo lo si vede anche con gli slip, non serve mettere il tanga o il perizoma» e avrebbe accennato alla «ciccia» e a «due etti di prosciutto e 4 etti di tette”), peraltro non confermate da altri insegnanti presenti, continueranno ancora per qualche giorno, e sicuramente la Prof.ssa Puleo non le utilizzerebbe più visto il putiferio che ne è scaturito, ma ciò non toglie che il problema sollevato resta di assoluta attualità.
Il caso di Vicenza è solo il più recente. Sono anni che in tutta Italia il modo di abbigliarsi dei ragazzi a scuola è diventato uno dei temi che divide maggiormente l’opinione pubblica.
Secondo i “permessivisti” l’ambiente scolastico deve consentire il più possibile la libera espressione del gusto personale, sia per quanto concerne l’abbigliamento, sia per quanto riguarda la condotta.
Secondo altri, ed in generale per i professori, fortunatamente la scuola resta un luogo da frequentare in modo serio, e per questo esigono dagli studenti un abbigliamento idoneo ed un comportamento decoroso.
Analogamente alcuni genitori sono diventati via via più disposti ad accontentare le richieste dei figli che desiderano andare a scuola con un outfit da discoteca; mentre altri non riescono più ad avere voce in capitolo nella gestione dell’educazione della propria prole.
Come sempre la verità non è mai appannaggio di una sola parte.
E tanto per fare un esempio, nella laicissima Francia si discute da tempo se non sia il caso, per fare fronte all’alto costo dei vestiti griffati desiderati dai ragazzi, di introdurre nelle scuole pubbliche della République l’uniforme.
Non mi scandalizzerei più di tanto, perché nei college più prestigiosi, in tutto il mondo, è un orgoglio indossare la divisa: per i favorevoli dovrebbe quindi esserlo anche nella scuola pubblica.
Chi ha modo di viaggiare fuori dall’Italia, avrà sicuramente visto nelle città francesi o spagnole o inglesi, ragazzi e ragazze andare a scuola al mattino indossando eleganti divise che sul taschino hanno sempre lo stemma della scuola.
E’ per i ragazzi un elemento di appartenenza ad una stessa squadra, un ostacolo al bullismo innescato da discriminazioni basate sull’abbigliamento e quindi sulle possibilità economiche, un maggiore sicurezza nelle uscite perchè è più facile per i docenti individuare gli alunni.
Le mie pro nipoti a Madrid non frequentano una scuola d’élite, ma fin dalla primaria hanno sempre avuto la loro divisa di cui vanno molto orgogliose.
In Italia non mi è giunta l’eco di un simile dibattito, ma la nostra è la Patria dei guelfi e dei ghibellini, per cui ci si perderebbe in sterili inutili polemiche, e alla fine non ne farebbe sicuramente nulla.
Si sente spesso dire che i ragazzi, gli adolescenti, non abbiano delle regole, non capiscano la disciplina.
In fondo questa è la principale missione della scuola, e quindi come debba essere insegnato loro che non si ruba, che non si dicono le parolacce, che non si parcheggia nel posto destinato ai disabili, così l’educazione, la formazione, a mio avviso deve partire anche della piccole cose, come il modo di vestire.
Il dibattito resta comunque aperto.
Voi come la pensate?
Umberto Baldo

VICENZA CITTA UNIVERSITARIA
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