Olimpia, l’eroina senza tomba

Umberto Baldo
Che cos’è davvero un eroe?
Ci hanno abituati a immaginarlo con una divisa, un cavallo bianco, o almeno una medaglia appuntata sul petto.
Ma la verità, quella che si nasconde tra le pieghe dimenticate della Storia, ci racconta spesso altro.
L’eroe non sempre finisce sui manuali di storia, nei monumenti, nelle parate.
A volte alcuni vivono e muoiono nell’ombra, lasciando dietro di sé gesti più forti delle medaglie.
A volte l’eroe è una donna qualunque.
A volte si chiama Olimpia.
L’eroismo non è solo coraggio: è sacrificio. È la scelta di mettersi tra il male e gli altri.
È la rinuncia a se stessi, spesso senza aspettarsi nulla in cambio.
L’eroe vero non recita, non posa, non sa nemmeno di esserlo.
Eppure salva.
Olimpia Mibelli Ferrini, nata nel 1923 a Portoferraio da una famiglia povera è una di queste figure che la grande storia non ha voluto ricordare.
Lavandaia, moglie giovanissima a 15 anni e vedova precoce, aveva solo 21 anni nel giugno del 1944, quando l’isola d’Elba fu liberata dagli alleati.
Una liberazione, si fa per dire.
L’operazione, condotta dai francesi con truppe coloniali marocchine e senegalesi, si trasformò rapidamente in una tragedia per la popolazione civile.
Fu così in altre località dell’Italia centrale, e non solo: queste truppe marocchine e senegalesi fuori controllo, si lasciarono andare ad una violenza generalizzata contro la popolazione femminile.
Episodi rievocati fra l’altro nel romanzo “La ciociara” di Alberto Moravia, da cui Vittorio De Sica trasse l’omonimo film con Sophia Loren.
Le cronache, le poche che non sono state silenziate, parlano di saccheggi, uccisioni, stupri.
Furono violentate donne, ragazze, bambine, persino un bambino.
Un rapporto dei Carabinieri del 1994 ha contato 191 stupri accertati. Ma chi può sapere quanti furono davvero?
La narrativa ufficiale ha preferito tacere. I vincitori, si sa, godono sempre di una certa indulgenza.
Ed i Governi italiani del dopoguerra, stretti tra la necessità della ricostruzione e la sudditanza diplomatica, fecero finta di non vedere.
L’unico che protestò fu Papa Pio XII, che per questo rifiutò di ricevere il Generale De Gaulle in Vaticano.
Olimpia era una donna libera, nel pensiero e nel corpo.
Amava la vita, amava l’amore, e amava chi l’amava.
In un’Italia ancora piena di giudizi e moralismi, la sua era un’esistenza fuori dagli schemi, ma rispettata dal vicinato.
E proprio lei, la “leggera”, la “libera”, fu quella che si caricò sulle spalle il dolore e le sofferenze di tutte.
Quando le violenze iniziarono, Olimpia si offrì ai soldati al posto delle altre.
Disse: “Ormai, per me uno più uno meno non è un problema, ma per loro sì”.
Con questo gesto riuscì a salvare dallo stupro decine di donne e ragazze.
Le invitava a vestirsi di nero, a nascondersi, a rendersi invisibili.
Lei invece si rendeva visibile. Per attirare su di sé la ferocia. Per deviarla.
Certo, sarebbe facile, leggendo questa storia, denigrare quel gesto, pensando e insinuando che Olimpia fosse poco più di una donnaccia, una prostituta, e che dunque il suo “sacrificio” non sia stato tale.
Ma sarebbe ingiusto, e falso.
Non è questa la memoria che ne conserva chi la conobbe.
Non è questo ciò che raccontarono i vicoli, le madri salvate, le figlie protette.
Olimpia non fu un’eroina da cartolina: fu una donna vera, e proprio per questo fu grande.
Per lei non ci furono medaglie. Nessuna targa, nessuna commemorazione.
Olimpia visse, lavorò e morì nel silenzio.
Nel 1985 se ne andò, circondata dall’affetto dei suoi cari.
Dopo anni, la sua salma è stata spostata nell’ossario comunale.
Niente tomba, niente fiori. Nessun luogo dove ricordarla.
Ma la sua storia è rimasta viva nella memoria degli elbani, tramandata come una leggenda urbana, sussurrata nei vicoli, raccontata come si raccontano con rispetto le cose che meritano rispetto.
E finalmente, 80 anni dopo, il Comune di Portoferraio ha deciso di dedicarle una via.
Una strada per una donna che ha salvato tante altre donne da pesanti sevizie.
Una via per chi ha camminato nell’ombra.
È poco. È tardi. Ma è qualcosa.
Perché lo stupro, nella lunga e tragica storia dell’umanità, non è mai stato solo un crimine individuale.
È stato — e continua ad essere — un’arma di guerra.
Un mezzo per annientare, umiliare, spezzare l’identità di un popolo.
Ma anche, e forse ancor più ignobilmente, un “premio” concesso ai soldati dopo la vittoria. Un trofeo fatto di corpi, usati e gettati, come se le donne fossero parte del bottino.
Nelle guerre antiche lo si chiamava “diritto di preda”. Nelle guerre moderne non lo si chiama più, ma lo si pratica ancora.
E allora, davanti a tutto questo, davanti alla ferocia mascherata da diritto di vittoria, davanti all’indifferenza dei vincitori ed al silenzio dei complici, il gesto di una giovane lavandaia dell’Elba assume un significato ancora più potente.
Perché Olimpia non ha salvato solo delle vite, ha salvato la dignità.
E questo, alla fine, è il più alto eroismo possibile.
Come scrisse Victor Hugo:
“La vita, la sventura, l’isolamento, l’abbandono, la povertà, sono campi di battaglia che hanno i loro eroi, eroi oscuri a volte più grandi degli eroi illustri”.
Olimpia Mibelli Ferrini è stata una di loro.
E raccontare la sua storia oggi non è solo un omaggio: è un dovere.
È un modo per dire, sommessamente, che non tutto può essere cancellato, se almeno qualcuno ricorda.
Umberto Baldo













