18 Giugno 2025 - 9.24

Donald Trump. Il gigante di cartapesta che fa ridere i tiranni

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Umberto Baldo

Per esperienza personale, credetemi che una delle situazioni più sgradevoli e frustranti in politica è quella di avere a che fare con un interlocutore “ballerino, ovvero una persona che oscilla continuamente tra dichiarazioni altisonanti e scelte contraddittorie, che magari mostra fermezza nei discorsi pubblici, ma poi al momento delle decisioni si defila, cambia posizione, media al ribasso, o addirittura si smarca del tutto.

Una simile figura è assai più insidiosa del cinico dichiarato o dell’opportunista di lungo corso, perché genera illusioni, confonde gli alleati, disorienta gli avversari (ma questi solo temporaneamente), e soprattutto mina la credibilità dell’intero fronte politico in cui opera. 

È il tipo di politico che può mandare in rovina una trattativa o un progetto riformatore, perché non sai mai se sarà con te fino in fondo o se si eclisserà quando il gioco si farà duro.

Fortunatamente non sono molti i leader con queste caratteristiche, che spesso non sono frutto di strategia, ma di debolezza caratteriale o di calcolo miope, spesso condizionato da sondaggi, umori del momento, o peggio ancora da pressioni esterne e personali. 

Il risultato? 

Quello che abbiamo di fronte agli occhi di questi tempi quasi ogni giorno.

Con i leader europei in particolare che non sanno letteralmente più da che parte pigliarlo!

Ultimo show l’abbandono del G7, di fatto affossando questo tipo di incontri al vertice.

E quindi paralisi, sfiducia, ed alla lunga un arretramento della politica stessa, che viene percepita dai cittadini come un teatro di marionette inaffidabili.

Immagino avrete capito che mi riferisco a Donald Trump.

E credetemi che non è un caso se negli ultimi due mesigli investitori finanziari hanno messo a punto una nuova strategia di trading, basata su una semplice regola: “TACO – Trump Always Chickens Out”, che si traduce con “Trump si tira sempre indietro”.

E’ un acronimo che descrive un modello comportamentale che si estende oltre l’economia. 

In effetti, è la caratteristica distintiva della presidenza di Donald Trump. 

Ma Trump non è solo un “pollo”. È un uomo “forte ma debole”, e gli avversari dell’America possono capirlo meglio degli americani. 

Molti americani temono Trump, e quindi immaginano che anche gli altri debbano farlo. 

Ma nessuno al di fuori dell’America teme Trump in quanto tale.

E credetemi che Putin, Xi Jinping, Erdogan, persino Netanyahu – che pure un tempo si era forse illuso di aver trovato in lui un alleato – lo hanno capito da un pezzo.

Perché prendere sul serio un uomo che si contraddice tre volte al giorno? 

Che promette fuoco e fiamme al mattino, e firma un armistizio farlocco nel pomeriggio? 

Che annuncia dazi, minaccia guerre commerciali, poi si accontenta di una stretta di mano davanti alle telecamere, e twitta “grande successo” prima ancora di sapere cosa ha firmato?

Che di fonte a qualsiasi guerra spara il fatidico “Ghe pensi mì”, e poi non succede nulla? 

Chi lo conosce bene sa come va a finire: Trump fa rumore, ma non fa paura. 

Non ha pazienza, non ha metodo, non ha squadra.

E allora Putin gioca con lui, Xi lo studia come si studia un fenomeno folkloristico, Erdogan lo chiama solo se ha bisogno di distrarre l’Occidente, Netanyahu lo avvisa solo a cose fatte.

Trump non è una minaccia: è una variabile impazzita. 

E prevedibile, proprio perché impazzita.

Un giorno vuole uscire dalla NATO, il giorno dopo ne è il paladino.

Un giorno ama i dittatori (“Kim è un grande!”), il giorno dopo minaccia “fuoco e furia”.
Non è strategia: è caos da bar sport.

Sapete qual è il vero guaio?

Che questo caos piace a molti americani. Perché sembra “autentico”. Perché rompe gli schemi. Perché fa spettacolo.

Ma nel mondo reale, quello dove si muovono carri armati e capitali, dossier e droni, un Presidente così è un regalo per ogni autocrate con un piano.

Trump non è un leone. È un leone da tastiera.  E i veri lupi, là fuori, hanno già capito come usarlo.

Soprattutto perché si sono resi conto che  Trump è un bluff urlato in diretta TV.

Putin, vecchia volpe addestrata dal KGB, ha intuito molto presto il meccanismo. 

Dietro il linguaggio aggressivo e le dichiarazioni roboanti, ha scoperto un Presidente più preoccupato del proprio indice di gradimento che del posizionamento globale degli Stati Uniti. 

E Xi Jinping, che pure sta affrontando Trump in una vera e propria guerra commerciale, ha potuto constatare quanto fosse facile disinnescarlo: bastava offrirgli una narrazione che potesse vendere come “vittoria” ai suoi elettori.

Anche Netanyahu – che inizialmente ha beneficiato della retorica filoisraeliana di Trump, culminata con lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme – ha finito per prendere le distanze. Non per divergenze ideologiche, ma per semplice pragmatismo: un alleato che cambia linea ogni settimana non è un alleato, è un’incognita pericolosa.

In breve Trump si dimostra il boss di un impero decadente che non sa più imporsi, perché ha smantellato da solo i suoi strumenti: la diplomazia, la coerenza, le alleanze, la competenza.

E qui a mio avviso arriviamo al nocciolo della questione; che è un  elemento strutturale: Trump ha deliberatamente indebolito gli apparati istituzionali su cui si fonda la capacità degli Stati Uniti di incidere nel mondo. 

Ha screditato i Servizi di Intelligence, umiliato il Dipartimento di Stato, svuotato di autorevolezza il Pentagono. 

Ha costretto diplomatici di carriera, generali, esperti di sicurezza, a lasciare il campo a fedelissimi o personaggi mediatici, privi delle competenze necessarie a muoversi su scacchiere complesse.

A poco serviranno slogan o ultimatum, se a gestire dossier come Ucraina, Taiwan, Iran o il futuro della NATO ci saranno solo “yes man” senza esperienza diplomatica, né visione strategica.

Alla Casa Bianca c’era un tempo la “War room”, oggi rischia di esserci la “Incompetence room”.

A decidere la politica estera non più i Kissinger, non più  veri diplomatici esperti, ma personaggi da talk show:  tipo Tulsi Gabbard (la pacifista filo-Damasco messa a capo dell’Intelligence), Kash Patel (il teorico della “deep state coup” nominato alla guida dell’Fbi), Pam Bondi (sì, quella della Florida, già testimonial di sé stessa), gente che farebbe rabbrividire qualsiasi osservatore serio di geopolitica.

Una squadra da casting, più che da Consiglio di Sicurezza.

Come accennato, quelli di Wall Street, gente pratica che bada al sodo (di fatto solo ai soldi) hanno capito per primi di che pasta è fatto Trump, e cosìi mercati, che hanno sempre cercato di leggere in Trump un pragmatismo funzionale al business, hanno finito per considerarlo una variabile da contenere più che da seguire.

Per carità nulla al mondo è eterno, e magari Trump nei prossimi tre anni e mezzo (caspita, ci pensate a tre anni e mezzo così!) potrebbe anche stupirci.

Consentitemi di dubitarne perché fino ad ora il risultato è stato evidente, e per me deludente: gli Stati Uniti, sotto Trump, sono diventati meno temibili perché meno credibili. 

Hanno perso la coerenza, la prevedibilità, l’autorevolezza che storicamente li rendevano una superpotenza rispettata. 

E nel vuoto lasciato da Washington, si sono infilati gli altri. 

Cina e Russia soprattutto, che agiscono con logiche di lungo periodo, strategia paziente e, paradossalmente, una coerenza interna che gli USA trumpiani sembrano non avere più.

Quindi la domanda, a questo punto, non è più se Putin o Xi temano Trump. 

La domanda è se l’America si rende conto del prezzo che ha pagato, e che rischia di pagare di nuovo, affidandosi ad un leader che ha distrutto le sue leve di comando in nome della propria vanità.

Perché non è con gli slogan che si governa un mondo complicato.

E non è con la paura che si ottiene rispetto, se poi quella paura si rivela infondata.

In fondo, è questa la vera cifra di Trump: è un bullo che bluffa, ma che alla fine non tira mai il pugno. 

E il mondo se n’è accorto. 

E l’America? L’America rischia di rendersene conto troppo tardi.

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