29 Settembre 2022 - 10.03

Trappole al ristorante (e al bar)

di Alessandro Cammarano

Nonostante la crisi, l’inflazione galoppante, un incerto futuro dalle screziature nucleari e – per non farci mancare nulla – la siccità, ci sono cose alle quali gli italiani non rinunciano, costi quello che costi: tra queste ci sono due riti, quello del ristorante e quello del bar, che devono essere onorati e celebrati a qualsiasi prezzo.

Tristemente la ristorazione, come la somministrazione di bevande calde e fredde – alcoliche e non – presenta alcune “criticità” sulle quali ci piacerebbe oggi soffermarci, sempre ovviamente in maniera poco ortodossa e politicamente non corretta, ché di ridere c’è gran bisogno.

Con la scusa del “cibo genuino” e del “menù a chilometro zero” – che Zeus strafulmini i cooking-show, “Quattro ristoranti”, “Cortesie per gli ospiti” e compagnia bella rei di avere reso chiunque Accademico della Cucina – le famose trattorie “alla buona”, talora trasformate in più invitanti e alla moda agriturismi, la fanno da padrone quando si deve decidere dove pranzare la domenica.

E allora tutti sui Colli – Berici o Euganei che siano – alla ricerca della trattoria “Gigia Onta” o “Da Smalfaro cucina casalinga” et similia. Chi invece opta per l’agriturismo si orienta su “La corte di Giovan Battista” o “La barchessa delle delizie”.

Di solito ci si va per tradizione di famiglia o, più spesso, dietro consiglio di un amico che il più delle volte si rivela poi essere un cugino primo di Jago.

Il primo impatto è col cameriere, generalmente assunto a chiamata dopo averlo selezionato tra le forze lavoro locali, che si arrangia come può.

L’accoglienza, dopo aver comunicato il nome col quale si è prenotato, è del tipo “Dovete mangiare?”, la risposta potrebbe essere “No, saremmo qui per il corso di découpage ma visto che ce lo chiede magari uno spuntino lo facciamo”.

Spesso il menu non c’è – il che è anche meglio perché di solito è illeggibile causa grasso accumulato in anni sulla plastica che “protegge” la lista delle pietanze – e il solerte cameriere attacca con l’usuale litania: “Antipasto della casa, bigoi, tajandee, risoto”, per proseguire con “griliata mista o anche solo costesine e bracioa, de contorno fasioi in salsa, radicci in tecia, patate e salada mista”.

Di solito le tavolate sono corpose e, per paura di confondersi, colui che si prende cura di noi dirà “Alzino la mano quanti bigoi!”, proprio come si farebbe al ristorante pluristellato di Heinz Beck per intenderci.

Deciso anche il numero di porzioni di tajandee, verificato che il numero dei piatti corrisponda a quello dei commensali e trasmessa la comanda i piatti cominciano ad arrivare. Va bene che sei “Zia Cesira” e non Carlo Cracco, ma una piramide di bigoli in bianco con sopra una mestolata di ragù o un grumo di pappardelle con su tre lamelle di funghi di cui una di porcino e le altre due di champignon farebbero tristezza anche ad un eremita che digiuna ininterrottamente da sei anni.

Pericolosissimo anche il risotto al tartufo, solitamente mantecato con olio che il prezioso boleto lo ha visto di sfuggita su una cartolina.

La maggior parte degli avventori consuma tutto con soddisfatta voracità, condendo il lavoro di mandibola con frasi del tipo “Ehhhh si sente quando la roba è genuina!” o “Qui fanno tutto in casa, sapete?” o peggio “Si mangia bene e si spende poco”: a fare un giro in cucina si scoprirebbero buste di pasta all’uovo rigorosamente da discount, alla faccia dell’home-made.

Alla fine, dopo l’immancabile panna cotta al caramello-fruttidibosco-cioccolato e il caffè la tutitolare, con aria tra il compiaciuto e il generoso, se ne esce con il canonico “Liquirizia? Limoncello? Offriamo noi”: si ricontano le mani alzate in modo che non si sbagli a versare dal bottiglione da dieci litri di “Digestivo gusto limoncello Aromi di Amalfi”, acquistabile per tre euro al cash&carry. Se invece si commette l’errore di chiedere un amaro allora si incappa nell’immancabile “Limoncello offerto, il Braulio lo devo mettere in conto”: imbarazzo.

Se si sceglie l’agriturismo tutto sembra migliorare: i camerieri portano qualcosa che assomigli ad una divisa, i bicchieri sono tutti uguali e le posate pure, ma c’è un però.

Il menù si fa spesso pretenzioso, presentando piatti del tipo “Il bigolo di farina 3 Sacchi dell’Azienda Florimondo Sguazzeri mantecati col nostro ragù di cortile”: ecco, la farina griffata fa lievitare il prezzo di un paio di euro mente il “nostro” assesta la botta definitiva al conto aggiungendo almeno altri tre euro. Costo totale del suddetto bigolo: 22 euro, alla faccia del bicarbonato.

Non si salvano neppure i bar, capaci di mettere in campo astuzie bizantine per lucrare sul cliente.

Il caffè, come la pizza, è tra le cose sulle quali grava il maggior ricarico da parte dell’esercente rispetto al costo effettivo: caro barista – ovunque tu sia, da Piazza San Marco a Pidocchiate di Mezzo – perché mi devi chiede venti centesimi in più per una lacrima di latte da trenta centesimi al litro? Perché mi guardi con seccata spocchia se chiedo un goccio d’acqua insieme al caffè? Tacciamo di Spritz al Tavernello e Bitter Vattelappesca.

Il peggio del peggio è comunque il tè: la media dei bar tiene solo l’English Breakfast – generalmente di marca sconosciuta dal nome finto-inglese – che, lo dice il nome stesso, non è proprio quello giusto per il pomeriggio.

Gentile barista, se mi fai pagare una tazza d’acqua calda, una bustina di foglie indistinte, una fettina di limone e una bustina di zucchero dai due ai tre euro e mezzo quanto ci stai guadagnado? Soprattutto se sei un baretto di paese e non il Gambrinus a Napoli o il San Carlo a Torino?

Adesso vi saluto e vado a mettere su l’acqua per la mia pasta spadellata col mio sughino fresco: costo 5 euro per 4 persone e buon appetito.

Alessandro Cammarano

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