11 Dicembre 2025 - 9.58

Petto in fuori e sugo in pentola: la cucina Italia è patrimonio UNESCO

Umberto Baldo

Quando l’UNESCO ha annunciato che la cucina italiana entra ufficialmente nel Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità, immagino che a Palazzo Chigi Giorgia Meloni gabbia gonfiato il petto come un tacchino alla vigilia di Natale. 

“Siamo i primi al mondo!”, ha proclamato. E giù fanfare, trombe, tricolori svolazzanti, Colosseo illuminato di bianco rosso e verde, e mezzo Governo già pronto a festeggiare come se avessimo vinto i mondiali. 

Peccato che, come quasi sempre, la frase sia vera… ma solo se la guardi da lontano. 

Perché è vero che siamo i primi ad avere TUTTA la cucina nazionale riconosciuta in blocco. 

Ma no, non siamo affatto i pionieri del cibo UNESCO. 

Altri sono arrivati prima di noi: i francesi nel 2010, i messicani nel 2010, i giapponesi e coreani nel 2013, la stessa Italia sempre nel 2013 per la Dieta Mediterranea, considerata però come bene transnazionale.

Loro già stavano con la medaglietta al collo, noi siamo semplicemente gli ultimi a salire sul podio, con la delegazione più numerosa del pianeta. 

Però con una differenza abissale, ed è questa la peculiarità: mentre gli altri facevano riconoscere un rituale specifico — il Gastronomic meal francese (non la cucina in sé, ma l’arte del convivio sociale legato al cibo, includendo l’aperitivo, le portate, l’abbinamento vini, l’eleganza della tavola e la convivialità che celebra i momenti importanti della vita)  il Kimjang coreano, il Washoku  giapponese, noi abbiamo chiesto il riconoscimento per l’intero caos ordinato della cucina italiana.

Cioè un mosaico di tradizioni, dialetti gastronomici, rivalità secolari e micro-identità locali che vanno dal ragù napoletano alla bagna cauda, dal cous cous trapanese alla polenta concia, dal pesto al basilico alla ribollita. 

Insomma: gli altri hanno presentato un dossier. Noi un atlante.

E qui entra la storia, quella vera. 

Perché la cucina italiana non esisteva nemmeno fino a due secoli fa. 

Prima c’erano solo le cucine regionali, spesso gelose, spesso chiuse, spesso convinte che “il resto d’Italia” fosse un’eresia culinaria. 

L’unità gastronomica del Paese è un’invenzione lenta: passa dai ricettari ottocenteschi, dal Talismano della felicità, dalle osterie ferroviarie, dalla scuola alberghiera di Stato, dalla televisione che trasforma la mamma in chef nazionale.

Il risultato è una delle poche “unità d’Italia” che funzionano davvero: abbiamo fallito nella politica, nell’ industrializzazione, nell’ identità repubblicana… ma a tavola siamo una nazione da manuale.

E non è un caso che proprio l’UNESCO — non esattamente un covo di gourmet — abbia capito che il nostro patrimonio non è il singolo piatto, ma la capacità tutta italiana di trasformare il cibo in cultura quotidiana. 

Un tratto che ci portiamo dietro dai tempi dei Romani, quando si litigava più sul garum che sul Senato. 

Da allora, il dibattito gastronomico è sempre stato, a mio avviso a ragione, più serio di quello politico.

Il Governo potrà pure riciclare il riconoscimento come trofeo da comizio, ma la verità è un’altra: questa iscrizione non premia la politica, non premia chi governa, premia il popolo, premia noi italiani; premia le nonne e le mamme che cucinano, e soprattutto chi mangia. 

Premia il gesto antico del cucinare, la ritualità del pranzo domenicale, l’arte di discutere animatamente sulla pancetta o guanciale nella carbonara, come se fosse materia costituzionale.

E forse, nel profondo, è questo che rende l’Italia unica: ogni tentativo di unirci politicamente fallisce miseramente, ma basta un piatto di pasta fatto “come Dio comanda” per rimettere tutti attorno a un tavolo.

Ed in effetti, secondo me il vero patrimonio dell’umanità che abbiamo regalato al mondo non è un piatto particolare, fosse anche la pizza; è la nostra liturgia quotidiana del mangiare: la sacralità della tavola, la famiglia che discute per un soffritto, il senso del tempo nelle lunghe cotture, il rapporto carnale col territorio ed i suoi prodotti. 

Un’altra cosa che all’estero ci riconoscono da decenni: l’Italia è un popolo che accetta tutto, tranne un piatto sbagliato.

E poi diciamoci la verità, al di là dell’ Unesco, noi italiani lo sappiamo benissimo da sempre che qui si mangia meglio che nel resto del mondo, fatto salvo qualche cucina orientale che però non ha la nostra estrema varietà di piatti, figlia della nostra storia di Paese diviso per secoli in mille città ed in una miriade di staterelli. 

E frutto anche di una geografia particolare (penisola lunga e stretta con una sorta di spina dorsale rappresentata dagli Appennini) che garantisce una varietà di prodotti unica al mondo, consentendo infinite varianti anche dello stesso piatto (si pensi solo al fatto che in qualsiasi località italica si mangia un piatto di pasta originale e diverso).

Dunque sì: festeggiamo pure il riconoscimento UNESCO.
E ricordiamoci che, per una volta, siamo riusciti davvero a essere primi. 

Ma lo siamo perché l’Italia — quando si tratta di cibo — è una civiltà, più che una Nazione.

Con buona pace di chi pensa che un bollino UNESCO possa spiegare un popolo che discute  tre giorni se la nonna tagliava l’aglio o lo schiacciava.

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