Il paradosso italiano: troppi filosofi, pochi idraulici

Da mesi guardo dal mio terrazzo il balletto infinito della ristrutturazione dell’immobile accanto al mio condominio.
La parte “pesante”, quella in muratura, tutto sommato è andata via liscia: intervento importante, certo, ma chiuso in tempi ragionevoli.
Poi, come spesso accade nelle migliori saghe italiane, è calato il silenzio.
Da un mese e passa il cantiere sembra una foto ingiallita: fermo, immobile, deserto.
L’altro giorno finalmente rivedo i muratori.
Macedone uno, romeno l’altro, due che il lavoro lo conoscono.
Mi avvicino, chiacchiere di rito, e azzardo la domanda chiave: “A che punto siamo? Quando finiamo?”.
Loro allargano le braccia, gesto universale che vale mille parole: “Per noi per il momento è finita. Ora devono venire idraulici ed elettricisti. Ma non ce n’è. Vengono, guardano… poi trovano altro da fare”.
E lì, in quelle quattro parole dette con fatalismo balcanico, c’è la radiografia perfetta dello stato dell’artigianato in Italia.
Perché leggere analisi e appelli degli imprenditori è un conto, vederlo dal vivo è un altro.
Il dato di fondo, intanto, è micidiale: in dieci anni abbiamo perso quasi 400.000 artigiani, un crollo del 22%.
Così non stupisce che trovare un idraulico, un elettricista, un falegname o un tappezziere stia diventando un’impresa nell’impresa.
Invecchiamento, pensionamenti, ricambio generazionale che evapora: una miscela che trasforma qualunque intervento domestico in una questione epica.
Prima di impantanarsi nella retorica, proviamo a ragionare “terra terra”.
Quando ero ragazzo, ai figli che non brillavano a scuola si diceva con leggerezza chirurgica: “Se non studi, vai a lavorare”.
Non era solo una frase: era un giudizio di valore.
Il lavoro manuale era considerato di serie B. Inferiore per definizione a tutto ciò che fosse “intellettuale”.
Ed un fondo di verità, ai tempi, c’era: ad esempio l’edilizia non era meccanizzata, i manovali esistevano davvero, e portare sacchi di cemento su e giù per i piani, o fare la malta con badile e secchio, non era una metafora.
Oggi certe figure sono scomparse, perché qualunque mestiere richiede competenze tecniche ed uso di macchinari complessi.
E tuttavia quella frase — “vai a lavorare” come punizione — è sopravvissuta più delle gru e dei secchi di malta, perché si è impressa nell’immaginario collettivo.
E come se non bastasse, negli ultimi anni abbiamo aggiunto un altro strato di confusione: abbiamo instillato nei ragazzi l’idea che il futuro passi da un telefono puntato addosso. Oggi migliaia di adolescenti sono convinti — perché qualcuno gliel’ha raccontata così — che non serva saper fare nulla, basta diventare influencer, creator, tiktoker.
Un modello di successo fondato sulla visibilità, non sulle competenze, e che per il 99% delle persone resta un miraggio che si infrange alla prima bolletta. È l’ennesimo paradosso italiano: disprezziamo i lavori veri, quelli che servono, e allo stesso tempo promuoviamo sogni professionali che non hanno alcuna relazione con il tessuto produttivo del Paese.
Poi c’era l’ascensore sociale degli anni ‘60-’70, quando studiare significava davvero riscattarsi.
Famiglie modeste che vedevano nello studio la rampa di lancio per un futuro migliore dei figli, e nel Liceo la “scuola dei ricchi”.
E così è diventata quasi una religione: meglio un 6 al liceo che un 8 al professionale.
Ancora oggi certi genitori riversano sui figli le carriere mancate, spingendoli verso percorsi che ritengono “prestigiosi”, ignorando attitudini e passioni.
Risultato?
Il 60% dei ragazzi si butta sul Liceo, convinti, o indotti a pensare, che sia l’unico modo per “salire di livello”.
Ma poi ci schiantiamo contro un’altra realtà: siamo il Paese con meno laureati d’Europa.
E, soprattutto, moltissimi ragazzi dopo il biennio dei licei mollano tutto (68% degli abbandoni), mentre nei professionali la dispersione è molto più bassa (12%).
Ecco perché serve una rivoluzione culturale. Va spiegato alle famiglie che i professionali di oggi non hanno nulla a che vedere con gli stereotipi del passato.
Hanno laboratori moderni, didattica pratica, macchinari veri, e permettono comunque di accedere all’Università.
Ma soprattutto preparano a lavori che esistono davvero, e sono richiestissimi.
Molti imprenditori raccontano la stessa scena: arrivano ragazzi che hanno fatto un pezzo di liceo, magari qualche esame universitario, o neppure finito il biennio, e chiedono un lavoro.
Quando però chiedi “Cosa sai fare?”, la risposta è il vuoto pneumatico: conoscono nozioni di cultura generale ma non hanno alcuna competenza tecnica utilizzabile.
Il problema è anche geografico ed economico: Regioni come Veneto, Lombardia ed Emilia sono fatte di piccole e medie aziende che non possono assorbire facilmente laureati iperspecializzati.
Non a caso sempre più giovani, anche da queste Regioni, prendono il volo verso Paesi che offrono sbocchi più coerenti con i loro studi.
Ed i numeri sono implacabili: in Italia mancano 250.000 tecnici che nessuno riesce a trovare, mentre migliaia di laureati in discipline con sbocchi ormai esili vagano alla ricerca di un’occupazione.
Un paradosso che ci costa 3 miliardi l’anno in produttività persa.
Quanto agli esiti occupazionali, risulta che nella maggior parte dei Paesi i tassi di occupazione dei giovani adulti con una qualifica di istruzione secondaria superiore tecnico professionale sono più alti rispetto a chi si laurea.
In definitiva, la cosa è semplice: dobbiamo smetterla di guardare il lavoro “non intellettuale” dall’alto in basso.
Perché oggi un idraulico od un elettricista bravo guadagna molto più di un avvocato mediocre o di un insegnante oberato (vi ho raccontato di recente di aver visto un idraulico usare come auto da lavoro una Porsche Cayenne).
Guardate che non si tratta di bloccare l’ascensore sociale: si tratta di aprire gli occhi sul mondo com’è diventato.
E se volete farvi un’idea reale del valore di un mestiere tecnico, provate a chiamare un idraulico per una piccola riparazione.
Se risponde entro una settimana siete già dei privilegiati (quanto a venire si aspetta…… quando vuole lui… e spesso mai).













