29 Maggio 2025 - 10.11

I nuovi invisibili. Cronaca del declino del ceto medio dimenticato

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Umberto Baldo

In Italia siamo ricchi di Centri Studi che periodicamente ci forniscono elaborati di altissimo livello, che fotografano la realtà socio-economica del nostro Paese.

Questi studi, che comunque è un bene vengano prodotti, sarebbero sicuramente più utili se i nostri Demostene li leggessero con attenzione, ci ragionassero sopra, e non si limitassero, come si ha l’impressione, semplicemente a commentarne i titoli con qualche battuta ad effetto. 

La settimana scorsa è stato presentato alla Camera dei Deputati il nuovo rapporto Cida-Censis dal titolato emblematico: “Rilanciare l’Italia dal ceto medio.  Riconoscere competenze e merito, ripensare fisco e welfare”.

Il dato che mi ha più colpito è che, stando ai numeri ed alle statistiche riportate dal Rapporto,  “Due italiani su tre (il 66,1%), infatti, si autodefiniscono ceto medio”.

Ma se andiamo al sodo, ai redditi, il 12,8 per cento di chi si candida a rappresentante del ceto medio è costituito da famiglie che hanno entrate inferiori ai 15.000 euro annui, circa 1.250 euro al mese. 

Il 45,2% dichiara tra 16 e 35mila euro annui. Un quarto abbondante (27,8%) tra 36 e 50mila, e l’11,5% fra 50 e 90mila. E poi c’è un 2,7% che pur superando i 90mila euro l’anno si sente ancora «ceto medio».

Devo confessarvi che, a mio avviso, un conto è sentirsi “ceto medio”, un altro conto è esserlo, e per quanto mi riguarda ciò che lo caratterizza è principalmente il livello di reddito.

Senza comunque escludere anche il fattore colturale, perché come scriveva a suo tempoArrigo Cajumi: “Senza una borghesia istruita, che a tempo perso sappia scombiccherare un sonetto, o incuriosirsi di un problema storico, a gustar la pittura o un romanzo, una nazione è squilibrata, e rischia di diventar acefala: molte delle nostre crisi sono avvenute per mancanza di quella che si definirebbe meglio classe pensante, che dirigente…”

In questa nostra Italia dei “patrioti” (ma era così anche con le sinistre) il ceto medio è troppo ricco per ricevere aiuti, ma troppo povero per costruire il futuro. 

Ed è per questo che, soprattutto il lato produttivo del Paese si sente sempre più insicuro.

E come dargli torto?

In dieci anni, in effetti, proprio le fasce media e alta di questo strato sociale hanno visto sgretolarsi parte della propria ricchezza, con un calo del proprio patrimonio, al netto dell’inflazione, pari a quasi un quinto (19,7%). 

Nessuno ha fatto peggio: né i ceti popolari e medio bassi (2,9%) né i benestanti (4,3%).

Ciò comporta che, a parte la constatazione che l’ascensore sociale che aveva caratterizzato il dopoguerra si è fermato, la sfiducia si riflette nel futuro sognato per i figli: più della metà dei genitori di ceto medio (52,8%) li vorrebbe vedere volare all’estero per gli studi universitari, sperando che oltre confine possano trovare condizioni migliori.

Capite bene che se una mamma italica spera che il figlio o la figlia emigri, se non siamo alla frutta poco ci manca!

Spero mi darete atto che su questo problema vi ho intrattenuto più volte, perché per me è un tema centrale nonostante quegli “scappati di casa” che manteniamo al Parlamento facciano finta di niente.

Il problema è che in Italia non esiste una definizione ufficiale di “ceto medio”. 

Non è una categoria giuridica né statistica: è una fascia socio-economica fluida, definita per esclusione; nel senso che “non è né la fascia povera né l’élite benestante”. 

Di norma si muove in un range di reddito lordo annuo tra i 25.000 e i 55.000 euro, a seconda degli studi. 

Anni fa la vera appartenenza si giocava, giustamente,  anche sul piano culturale: valori borghesi, istruzione, lavoro stabile, fiducia nelle istituzioni, risparmio, previdenza. Tutti elementi erosi negli ultimi vent’anni.

Le cause di questa crisi sono note, e vanno da una “pressione fiscale sproporzionata” (chi guadagna 35.000–45.000 euro lordi l’anno paga una quota IRPEF eccessiva, senza accedere a bonus o agevolazioni) al “taglio dei servizi pubblici” (sanità, scuola e trasporti peggiorano, ma il ceto medio continua a pagarli, e a finanziarli)

Da non trascurare poi l’inflazione dei beni “borghesi”: (casa, istruzione, vacanze, sanità privata sono diventati sempre meno accessibili); la “precarizzazione del lavoro” (anche laureati e professionisti soffrono la mancanza di stabilità); e le “politiche pubbliche polarizzate (bonus a pioggia ai “sotto una certa soglia” e flat tax o regimi agevolati per autonomi o partite IVA, lasciando quasi del tutto scoperta la fascia intermedia).

Ma il principale motivo di questa caduta sociale è l’aumento costante, inesorabile, dei prezzi dei beni di prima necessità. 

Di cosa parli Meloni, a quale Italia si riferisca quando usa i suoi toni trionfanti, non è dato sapere. 

Non è un caso che io definisca i contribuenti che denunciano dai 35mila euro in su i veri “Kulaki”, perché il paradosso italiano è che, secondo la Politica, si è ricchi proprio a partire da questo livello reddituale.

Ma facendo due conti, questo equivale a circa 1.900 euro netti al mese.  

Per chi lavora nel settore pubblico o privato dipendente, con famiglia e figli a carico, è una cifra ben lontana dal benessere; ma fiscalmente si è nel pieno carico contributivo, e fuori da ogni sostegno.

Non sono pochi i kulaki in Italia; sono circa 6,5 milioni di persone, che pagano quasi il 40% dell’Irpef complessiva. 

Un blocco sociale decisivo, ma ignorato perché non fa rumore, non scende in piazza, non vota “in blocco”, non è facilmente etichettabile. 

Io credo che il ceto medio italiano non sia morto, ma sia stato abbandonato; come sono stati abbandonati i pensionati usati come Bancomat dalla politica, di cui vi parlavo un paio di giorni fa (https://www.tviweb.it/da-pensionato-voglio-anchio-il-triple-lock/).

È la vera vittima delle politiche clientelari e della polarizzazione sociale. 

Lo Stato ha smesso di considerarlo un investimento per il futuro, e lo tratta come un bancomat fiscale. 

Ma 6,5 milioni di “pseudo-ricchi” stanchi e invisibili sono troppi per essere ignorati ancora a lungo.

Eppure questi redditi da “nababbi” (ripeto 35mila euro lordi annui) non consentono una vita agiata, soprattutto nelle città; non consentono di accedere a bonus o sostegni (ISEE troppo alto);  finanziano il welfare per tutti, spesso senza ricevere molto in cambio;  sono colpiti da un cuneo fiscale enorme, che arriva a erodere fino al 50% del costo del lavoro.

E nonostante tutto nel Paese dei bonus elettorali, delle mance di Stato e dei redditi di cittadinanza, chi guadagna più di 35.000 euro lordi all’anno continua ad essere  etichettato come “ricco”. 

Peccato che, tolte le tasse, restino in tasca meno di 2.000 euro al mese, da dividere tra mutuo, figli, bollette, carburante, medicine e qualche sogno residuo.

Una volta lo chiamavano benessere; adesso è mera sopravvivenza.

Nel frattempo lo Stato vizia due categorie: i “poveri certificati” (che troppo spesso non lo sono davvero) e gli evasori patentati, coccolati con regimi forfettari, sconti, condoni e flat tax. 

Il risultato lo conosciamo da anni: il 60% degli italiani non paga le tasse; un 24% versa appena il sufficiente per pagarsi i servizi di base; tutto il vero carico fiscale sta sulle spalle di quel 17% che dichiara più di 35mila euro l’anno.

Il ceto medio? Non protesta, non si organizza, non occupa strade. Troppo occupato a lavorare, e troppo educato per minacciare.

Tutti i governi, nessuno escluso, lo hanno così abbandonato. 

Non è utile per fare campagna elettorale; non è abbastanza povero da commuovere, né abbastanza ricco da influenzare. 

È solo utile a pagare tutto. E poi tacere.

Ma attenzione. Questa classe sociale di 6,5 milioni di contribuenti è ancora numericamente centrale. 

Un numero che se trovasse uno sbocco politico potrebbe far cadere qualsiasi governo. 

Se solo si accorgesse della propria forza.

Quindi la si metta di chiamarli “privilegiati”, e di prenderli in giro promettendo riduzioni fiscali per l’anno di poi ed il mese di mai. 

Sono i nuovi invisibili, e se continueremo a ignorarli, saremo tutti più poveri. 

Non solo nel portafoglio, ma nella democrazia.

Ci pensi onorevole Meloni a privilegiare solo pauperismi ed evasori fiscali!  

E ci pensi anche lei onorevole Schlein, perché quei 6,5 milioni di voti le tornerebbero utili per un’eventuale vittoria;  e creda che  con le proposte di “patrimoniali”, ed i voti dei Centri sociali e delle Sardine, resterà stabilmente all’opposizione.

Umberto Baldo

PS: ormai l’Italia funziona sulla base di questo  principio: “meno dichiari (e meno lavori in chiaro) e più soldi e servizi ti dò; mentre più dichiari più ti tartasso di imposte e a meno servizi avrai diritto. 

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Testata Street Tg Autorizzazione: Tribunale Di Vicenza N. 1286 Del 24 Aprile 2013

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