I ‘nemici’ dell’automobilista: dal ciclista arrogante al bimbominchia con le cuffiette

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Di Alessandro Cammarano
Nel cuore pulsante del traffico cittadino, mentre i motori brontolano, i clacson si sfogano e l’aria vibra di microparticelle e imprecazioni silenziose, si consuma ogni giorno un dramma antico quanto la ruota: la marcia solitaria dell’automobilista attraverso un mondo ostile che sembra concentrarsi tutto sulle strisce zebrate.
Un universo popolato da figure mitiche, archetipi ambulanti che sembrano usciti da un bestiario metropolitano.
Questi non sono semplici pedoni, ciclisti o pensionati: sono nemici giurati, armati non di spade, ma di bastoni da passeggio, cuffiette wireless, passeggini, zaini tattici, carrelli della spesa e sguardi persi nel vuoto siderale.
Ecco a voi una piccola porzione, divisa per categorie – ce ne sarebbero molte altre, a dire il vero – del microcosmo che anima gli attraversamenti pedonali e non solo.
Il ciclista arrogante.
Avanza come un sovrano senza regno, sicuro del fatto suo, incurante di semafori, sensi di marcia, marciapiedi e leggi di gravità. Pedala in jeans o in completino tecnico da cronometro, a seconda dell’umore, guardando le auto con l’espressione di chi sa di essere nel giusto per statuto morale, e per questo può invadere ogni spazio, reale o immaginario. Se sfiora uno specchietto retrovisore, non si scusa: scuote la testa. Se qualcuno osa fargli notare che no, il marciapiede non è una pista ciclabile, risponde con la stessa indulgenza con cui un profeta ammonirebbe un peccatore. È convinto di rappresentare il futuro. Un futuro un po’ contromano. E guai a criticarlo: ti fulmina con lo sguardo, poi si rimette a pedalare, zigzagando tra le auto con l’eleganza di un felino e la sinuosità di un serpente a sonagli.
L’anziano sulle strisce
È un personaggio solenne. Si muove lentamente, sì, ma con la gravità di un giudice costituzionale in pensione, attraversa sulle strisce con passo di chi sa che la legge è dalla sua parte — e la sfrutta fino all’ultimo millimetro, individua l’auto ferma a distanza siderale e la fissa con severità.
Procede: una gamba, pausa, l’altra gamba, pausa. A volte alza il bastone: non per sorreggersi, ma per ammonire. Una sentinella della legalità pedonale che, anche di fronte al più rispettoso degli automobilisti, riesce a trasmettere un messaggio inequivocabile: “ti sto perdonando, ma non dimentico.”
E poi c’è la variante: la vecchia con il carrellino della spesa.
Avanza lenta ma inesorabile, come un iceberg che attraversa l’Atlantico, ferma il traffico con la stessa naturalezza con cui annaffia i gerani. Se l’auto si avvicina troppo, sbuffa, se aspetti paziente, scuote la testa: “ai miei tempi si rispettavano gli anziani.” E tu, dietro il volante, diventi improvvisamente colpevole di ogni torto generazionale mai commesso.
Il pedone con le cuffiette
Lo si potrebbe scambiare per una vittima; in realtà è un guerriero inconsapevole. Armato di smartphone e cuffie noise-cancelling, si muove nel traffico come se stesse camminando tra le nuvole. Attraversa dove capita, quando capita, senza guardare, ignora semafori, strisce, automobili e a volte anche l’esistenza di altre dimensioni. La sua fiducia nel fatto che tutto si fermerà al momento giusto è incrollabile. È l’incarnazione del fatalismo urbano: “se deve andare, andrà, ma intanto ho una playlist da finire.”
Nella variante più estrema, danza leggermente, muove la testa a tempo, magari canta. Incrociarlo di notte, sotto la pioggia, è come vedere un videoclip in diretta — con te nel ruolo dell’operatore che cerca disperatamente di evitarlo.
Il ciclista fantasma
Non è del tutto chiaro da dove arrivi. Si materializza tra due auto in sosta, attraversa la strada in bicicletta — rigorosamente a fari spenti — con due buste della spesa e un equilibrio precario da funambolo del Cirque du Soleil. Nessuno lo ha mai visto fermarsi; si muove come un’ombra silenziosa, ma sempre nel punto esatto dove non dovrebbe essere. In curva, in discesa, al crepuscolo. La sua apparizione dura pochi secondi, ma resta impressa nella mente di chi guida come un trauma da cortile.
Il suo vero superpotere? Essere invisibile agli specchietti. Riaffiora nella memoria solo quando, arrivati a casa, quando si pensa: “Ma quel tipo… era reale?”
Il capitano dell’Enterprise
La sua astronave è un SUV con più sensori che uno shuttle. Ha luci interne ambientali, specchi retrattili, radar frontali e posteriori, e un sistema di parcheggio automatico che però viene usato solo a metà. Entra nei parcheggi con solennità, come se stesse attraccando alla stazione orbitale. La manovra dura ore, la precede una meditazione, la segue una retromarcia sbagliata. Poi scende, guarda, risale; non c’è fretta.
Perché mentre gli altri combattono la giungla urbana, lui la osserva dal ponte di comando. E se un altro veicolo osa passargli accanto, alza lo sguardo e comunica, senza parlare: “lei non sa chi sono io.”
Ha lo sguardo di chi, se potesse, ti taglierebbe in due con un laser. Ma per ora si limita a farti aspettare.
La madre distratta con passeggino
Non ha fretta. Non ha paura. Ha un passeggino da guerra, largo come un sidecar, munito di freni a disco e tetto parasole, e lo spinge con calma, parlando al telefono, magari mandando un vocale di tre minuti e mezzo alla cognata. Attraversa in diagonale, con l’andatura di chi ha fatto pace con l’universo. A volte trascina anche un altro figlio libero, che vaga con passo ondivago tra le corsie come una pallina impazzita. Qualunque segnale stradale cede il passo alla sua autorità genitoriale. In fondo, ha in mano il futuro e anche il semaforo lo sa.
Quando la incroci, capisci che puoi solo rallentare. Anzi, fermarti. Non per galanteria, ma per istinto di conservazione
Il gruppo di suore
L’apparizione è rara ma inconfondibile. Si muovono compatte, vestite di bianco e nero, come una falange macedone. Attraversano le strisce senza fretta ma con determinazione divina. Nessuno osa suonare, nessuno osa accelerare, c’è una forza ultraterrena che impone rispetto, anche quando bloccano il traffico in orario di punta. Guardano avanti. Non sorridono. Avanzano in formazione perfetta, come se stessero pattugliando la linea del sacro, e l’automobilista resta lì, fermo, con un misto di timore e redenzione improvvisa.
L’adolescente smarrito nello smartphone
Figura solitaria, apparentemente innocua, si aggira tra i marciapiedi e le strisce pedonali come un sonnambulo digitale. Cammina senza guardare, scrollando lo schermo con la dedizione di un bibliotecario del caos. Attraversa la strada con la stessa consapevolezza con cui un piccione attraversa una pista di decollo. Ogni tanto ride da solo, oppure cambia direzione bruscamente, come attirato da un campo magnetico ignoto. È invisibile ai radar dell’automobilista, ma sempre perfettamente nel mezzo della carreggiata al momento meno opportuno.
E se lo sfiori, nemmeno se ne accorge. Ti ignora, tu freni di colpo, lui aggiorna una storia.
E in mezzo a loro l’automobilista che fa? Resiste, osserva, frena, a volte impreca; sempre più spesso si rassegna, perché la strada, in fondo, non è un luogo ma una commedia umana. E in questa commedia, anche chi crede di essere protagonista è, il più delle volte, solo una comparsa nel dramma quotidiano di qualcun altro.