29 Settembre 2025 - 9.47

Compreresti una Porsche elettrica?

Umberto Baldo

Sempre durante le mie passeggiate mattutine, un giorno mi sono soffermato a riflettere sul futuro di un oggetto che, nel bene e nel male, ha caratterizzato un’epoca: l’automobile.  Indubbiamente un pensiero su un futuro al momento denso di incognite. 

Non aspettatevi grandi analisi, in quanto non sono un esperto, bensì qualche riflessione, e qualche domanda, che ciascuno di voi potrebbe porsi. 

Partirei dal fatto che l’automobile non un semplice oggetto di metallo e plastica: è stata la grande protagonista del Novecento, simbolo di libertà individuale, di progresso, di potenza economica. 

Oggi, invece, l’auto è diventata terreno di scontro politico, tecnologico e perfino identitario. 

Un campo minato dove si incrociano la volontà ecologista di Bruxelles, il pragmatismo americano, l’astuzia cinese, e la confusione strategica dei costruttori europei.

Partiamo da Bruxelles. Con la decisione di vietare dal 2035 la vendita di nuove auto a motore termico, l’Unione Europea ha scelto la strada della transizione totale verso l’elettrico. 

Una scelta che, sulla carta, ha il sapore della grande visione: liberare le nostre città dalle emissioni, trainare la rivoluzione verde, diventare pionieri mondiali. 

Ma c’è un piccolo dettaglio: questa corsa non la stiamo correndo da soli. 

E gli altri – Stati Uniti e Cina – hanno strategie che mettono in discussione il nostro coraggio, o la nostra ingenuità.

Gli Stati Uniti, all’inizio, sembravano allineati. Biden aveva varato incentivi miliardari per l’elettrico, e le performance di Tesla sembravano certificare che il futuro fosse già arrivato. 

Poi, come sempre accade oltre Atlantico, è arrivato il pendolo della politica. Con Trump è cambiata la musica: stop agli obblighi federali, via libera a benzina e diesel, ritorno all’idea che il mercato debba decidere. 

Per capirci: mentre l’Europa continua a legiferare con mano pesante, Washington dice “lasciamo libertà al consumatore”. 

E così il nostro grande alleato d’Oltreoceano prende le distanze da quell’elettrificazione che noi vogliamo imporre ad ogni costo. 

Il recente discorso all’Onu di Donald “Fàso tùto mi” mi sembra offra pochi margini: negazionismo climatico e avanti con diesel e benzina.

E qui entra in scena la Cina, il vero convitato di pietra. 

L’officina del mondo non si limita a “seguire la moda”; la crea. 

Pechino ha capito che l’auto elettrica è la nuova via per dominare la manifattura globale. 

Ha la filiera più completa (dalle miniere di litio alle gigafactory di batterie), il mercato interno più vasto, e la capacità di abbattere i costi con una velocità che in Europa ci sogniamo. 

Risultato? La Cina è già il primo produttore mondiale di auto elettriche e adesso, per smaltire la sovrapproduzione, punta a invadere l’Europa con i suoi marchi.

Non solo esportazioni: BYD e soci vogliono impiantare stabilimenti direttamente qui, per produrre “in casa nostra” a condizioni che rischiano di affossare ulteriormente le aziende europee. 

Mentre a Wolfsburg o a Torino si discute di esuberi, Pechino si prepara ad aprire fabbriche e ad assumere; sì, ma a modo suo. 

Il tutto con il beneplacito di Governi che, pur di avere investimenti, rischiano di spalancare le porte al cavallo di Troia.

Ed i nostri costruttori? Qui la situazione rasenta il tragicomico. 

Da un lato, Bruxelles impone target severissimi di riduzione delle emissioni, dall’altro i consumatori sono ancora tiepidi, quando non diffidenti, verso le auto full electric: autonomia insufficiente, costi altissimi, infrastrutture di ricarica carenti. 

In mezzo, la concorrenza cinese che gioca sui prezzi bassi.

Le aziende, fra incudine e martello, sanno che qualsiasi scelta è un punto di non ritorno: investire miliardi su piattaforme elettriche e ritrovarsi poi con mercati saturi significa rischiare la bancarotta; rallentare la transizione significa finire nel mirino dei regolatori europei. 

Non stupisce che molti marchi stiano tentando disperatamente di convincere Bruxelles a “diluire nel tempo” l’addio al termico.

Nel frattempo, la strategia si chiama “ibrido” o “plug-in”: soluzioni di transizione, che permettono di ridurre emissioni senza tagliare del tutto il cordone ombelicale con benzina e diesel. 

Una via di mezzo che non entusiasma gli ecologisti, ma che risponde alle paure concrete di chi deve comprare un’auto nuova.

Intanto, però, la cronaca racconta una realtà meno patinata.

Bosch annuncia migliaia di licenziamenti in Europa; Volkswagen mette in pausa alcuni stabilimenti dedicati all’elettrico; Stellantis studia come ridimensionare i costi; Porsche ha deciso di entrare anche nel settore della difesa. 

La transizione, che doveva essere la grande occasione, sta diventando un campo di battaglia sociale, con i lavoratori in prima linea a pagare le incertezze di politici e manager.

E poi c’è il capitolo forse più affascinante: il lusso. 

Porsche, Bentley, Audi – marchi che vendono emozioni oltre che automobili – hanno deciso di frenare. Continueranno a produrre endotermiche o, al massimo, ibride. 

Perché? 

Perché il cliente che spende centinaia di migliaia di euro non vuole soltanto un mezzo di trasporto, vuole il brivido.

E qui la domanda diventa personale: perché dovrei comprare una Porsche se non mi offre più quel rombo, quel suono emozionante, che ti entra nelle ossa? 

Non è un dettaglio estetico, ma la quintessenza di un’esperienza. 

Anche se a parità di prestazioni, sostituire il ruggito di un motore Porsche con il sibilo di un inverter per me non è “innovazione”, è amputazione. 

E i marchi del lusso questo lo hanno capito benissimo.

E se vogliono continuare ad avere acquirenti per le loro auto devono poter vendere ancora “emozioni”.

Guardando il quadro d’insieme, viene da chiedersi: non stiamo affrontando questa transizione in modo demenziale, spinti da un ecologismo irragionevole? 

L’Europa ha deciso di fare da sola, imponendo regole ferree che rischiano di bruciare un intero settore industriale. 

L’America si tira indietro, la Cina avanza, e noi restiamo schiacciati, con migliaia di posti di lavoro in bilico ed i consumatori confusi.

Forse l’auto elettrica sarà davvero il futuro. 

Ma non oggi, non così. Non con colonnine di ricarica che non ci sono, con costi delle auto fuori portata per le famiglie, e con fabbriche che licenziano. 

La transizione energetica è necessaria, ma deve essere gestita con buon senso, gradualità e realismo. Non a colpi di ideologia.

Quando salgo in macchina, penso a mio padre che negli anni Cinquanta vedeva l’auto come il simbolo della libertà: ti portava dove volevi, ti dava autonomia, ti faceva sognare. 

Oggi, invece, ci troviamo con l’auto trasformata in campo di battaglia geopolitica e normativa, più che in oggetto di desiderio.

L’Europa rischia di trasformare un settore che è stato il cuore del suo sviluppo industriale in un boomerang sociale ed economico. 

E, mentre ci imponiamo obiettivi impossibili, lasciamo spazio a Cina e Stati Uniti di giocare la partita vera.

Alla fine, resta una domanda che non è soltanto tecnica, ma emotiva: siamo sicuri che il futuro dell’automobile debba essere un silenzio elettrico, freddo e anonimo? 

O vogliamo ancora un po’ di rombo nelle ossa, prima che l’ideologia ci tolga anche quello?

Umberto Baldo

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