15 Ottobre 2025 - 11.20

Bambini incollati allo smartphone: quando la babysitter è un’app

Di Alessandro Cammarano

Ci sono genitori che, davanti a un bambino piangente o annoiato, evocano più facilmente il nome di Steve Jobs che quello di Freud: «Prendi il tablet». È la formula magica del nostro tempo, la bacchetta luminosa che spegne i capricci e accende, per conto terzo, l’attenzione. In poche settimane, il piccolo – che per altro è nativo digitale – impara che esistono pulsanti più efficaci del dialogo e notifiche più persuasive di una carezza. Nelle case di oggi, il babysitter tradizionale — nonno, zia, nonna o cagnolino di buona volontà — è stato affiancato, quando non sostituito, da un babysitter digitale: uno schermo che riproduce il mondo, lo filtra e molto spesso lo distorce.

Viviamo nell’epoca dei corsi di comunicazione empatica, dei manuali su “come ascoltare i figli” e delle playlist di luci soffuse per la nanna. Ma nella realtà quotidiana, quando la riunione incombe o la fame si fa sentire, la soluzione è quasi sempre la stessa: schermo acceso, volume a livello “rave”, «guarda questo» e via libera all’apatia serena. Il device diventa una promessa di tranquillità: non fa domande, non discute sui biscotti prima di cena, non reclama spiegazioni. È il placebo perfetto per genitori esausti e disattenti.

Il paradosso è che la tecnologia, invece di ampliare la comunicazione, la sta spesso sostituendo. Il problema non è lo strumento, ma l’uso che se ne fa: un genitore che porge il telefono al figlio per poter fare altro sta dicendo, con gesto quasi simbolico, «la tua richiesta di attenzione vale meno della mia necessità di produttività». Il bambino impara presto che l’amore è qualcosa che si può delegare, che la partecipazione affettiva ha un tasto “salta annuncio”. E come ogni dipendenza — che si tratti di cioccolata, affetti impossibili o serie tv — quella digitale cresce silenziosa, mascherata da sollievo immediato.

C’è anche un lato tragicomico: i bambini capiscono in fretta le gerarchie dell’attenzione. Scoprono, prima ancora di parlare bene, la legge immutabile delle app: più colore, più scorrimento, più premio immediato. Così, quando la realtà “analogica” — una palla che rotola, un compagno che ride, una nonna che racconta — non offre la stessa gratificazione istantanea, subentra la noia. E la scuola non è immune: sedie, lavagne e compiti devono contendersi la mente con notifiche e algoritmi progettati per catturare ogni sguardo.

Fortunatamente, almeno sul piano politico, qualcosa si muove.

L’Europa ha iniziato a riflettere seriamente sui rischi del consumo digitale precoce: la Commissione Europea ha pubblicato linee guida per la protezione dei minori e un prototipo di app per la verifica dell’età, pensati per limitare l’esposizione a contenuti nocivi e l’uso non regolamentato dei servizi digitali. È un primo tentativo di tradurre in norme quella che, finora, era solo una preoccupazione diffusa.

Il Digital Services Act (DSA), la nuova direttiva europea sui servizi digitali, ha imposto ai giganti del web maggiore trasparenza: piattaforme come Snapchat, YouTube, Apple e Google sono state chiamate a chiarire come verificano l’età degli utenti e come intendono proteggere i minori dai contenuti pericolosi.

È un segnale importante: l’Europa non vuole più limitarsi alle enunciazioni di principio, ma arrivare a regole applicabili e verificabili.

Alcuni Paesi hanno già preso la strada del rigore. La Francia, pioniera nel vietare i telefoni in classe fin dal 2018, ha esteso la sperimentazione con “pause digitali” in centinaia di scuole e con nuove raccomandazioni: niente smartphone prima degli undici anni e limitazioni ai social network fino ai quindici. Anche la Danimarca e altri Paesi del Nord Europa stanno seguendo la stessa direzione, cercando un equilibrio più sano tra tempo digitale e attività reali.

E da quest’anno scolastico, anche l’Italia ha fatto un passo deciso nella stessa direzione: il Ministero dell’Istruzione e del Merito ha introdotto il divieto di cellulare in classe per tutti gli ordini di scuola, comprese le superiori. La circolare ministeriale n. 3392 del 16 giugno 2025, insieme alla nota n. 5274 dell’11 luglio 2024, impone alle scuole di vietare l’uso del telefono per tutta la giornata scolastica, non solo durante le lezioni. Ci sono eccezioni, naturalmente: i dispositivi restano ammessi per studenti con disabilità o DSA, e possono essere utilizzati a fini didattici sotto la guida degli insegnanti. Ma il segnale è chiaro: la scuola torna a essere un luogo di attenzione condivisa, non di distrazione continua.

Resta però aperta una questione cruciale: come verificare l’età senza scivolare nella sorveglianza di massa?

L’Unione propone soluzioni tecniche — dal prototipo di app alla futura “Digital Identity Wallet” — ma molti esperti mettono in guardia: se mal calibrati, questi strumenti potrebbero violare la privacy o trasformarsi in barriere digitali. Il vero obiettivo, semplice a parole ma complesso nei fatti, è permettere ai minori di navigare in sicurezza senza diventare essi stessi oggetto di controllo.

E poi ci sono i genitori, veri protagonisti (e responsabili) della storia. Le leggi sono importanti, le app utili, ma nessun algoritmo potrà mai sostituire la presenza: non esiste autoplay per le relazioni affettive. Se vogliamo che i bambini imparino a tollerare la frustrazione, ad aspettare una risposta, a godere di una conversazione senza like ma con sguardi veri, dobbiamo praticare una piccola “igiene affettiva” quotidiana: spegnere i device durante i pasti, leggere insieme dieci minuti al giorno, uscire senza telefono e, soprattutto, ascoltare. Ascoltare davvero, con le orecchie e con il tempo.

Forse, tra qualche decennio, potremo raccontare ai nostri nipoti storie d’altri tempi: di genitori che portavano i figli al parco e si sedevano accanto a loro senza guardare lo schermo, di bambini capaci di restare interi senza filtri e metriche.

Per ora, la sfida è semplice e urgente: non affidare alle notifiche ciò che appartiene alle nostre mani. Se riusciremo a insegnare ai più piccoli che l’attenzione non si delega, avranno la possibilità di vivere la tecnologia come compagna e non come surrogato d’amore.

E in un mondo dove anche il silenzio si vende a caro prezzo, sarebbe già una rivoluzione.

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