24 Dicembre 2025 - 9.52

Il Natale e la realtà che non va in vacanza. Auguri che non assolvono

Umberto Baldo e la Redazione di Tviweb

Ogni anno mi pongo la domanda: cosa scrivere nel “pezzo di Natale”?

Certo si può sempre cedere alla tentazione di parlare della festa stereotipata cui ormai siamo abituati da decenni, con luci, candele, panettoni e pandori, Babbi Natale, neve (sempre più artificiale), buone intenzioni e quant’altro.

In altre parole un esercizio che dovrebbe essere lieve, conciliante, rassicurante. 

Una parentesi emotiva dentro un anno spesso duro; come se bastasse abbassare le luci ed alzare il volume dei buoni sentimenti per riequilibrare il resto.

Il problema è che il mondo, ormai, non collabora più nemmeno con le liturgie.
E scrivere del Natale, oggi, senza fare i conti con la realtà politica e culturale che ci circonda, rischia di diventare non solo banale, ma persino poco onesto.

Confesso quindi il mio disagio.
In altre parole, non faccio fatica a scrivere del Natale in sé, ma dello scarto sempre più evidente tra le parole che pronunciamo in questi giorni e le scelte che accettiamo per il resto dell’anno. 

Pace, dignità, solidarietà: valori evocati in questi giorni con grande solennità mentre, nei fatti, vengono ridimensionati, negoziati, subordinati ad interessi considerati “più realistici”.

Questo Natale arriva in un tempo in cui le guerre non sono più scandali ma dossier, in cui i morti diventano statistiche, e le tragedie si misurano in “sostenibilità” mediatica; in un tempo in cui l’Europa discute apertamente di riarmo.
Un tema che viene spesso raccontato in modo semplicistico, come se ogni investimento nella difesa fosse automaticamente una dichiarazione di guerra. 

Non è così. 

In un mondo in cui esistono potenze  che rivendicano territori altrui, che riscrivono confini con la forza, e trattano il diritto internazionale come un fastidio, pensare alla sicurezza non è di per sé un peccato originale.

Il problema non è difendersi.
Il problema è farlo senza una visione politica, senza un’idea di pace che non sia solo deterrenza armata, senza una diplomazia all’altezza delle sfide. 

Perché il rischio è evidente: che il riarmo diventi non uno strumento per evitare i conflitti, ma l’unico linguaggio rimasto. 

Una scorciatoia per rispondere ai “moderni Erode” che invadono e pretendono terre non loro, ma che finisce per impoverire il progetto europeo sul piano culturale e morale.

Le guerre, intanto, continuano a scorrere nei notiziari come una colonna sonora costante.
I morti militari e civili diventano numeri, le distruzioni mappe, i drammi una questione di durata dell’attenzione mediatica. 

Ci sono conflitti che meritano indignazione permanente ed altri che svaniscono rapidamente, a seconda della latitudine, delle alleanze, della convenienza strategica. 

È una selezione cinica, ma ormai largamente accettata.

In questo contesto l’Europa ama ancora definirsi “comunità di valori”, ma fa sempre più fatica a comportarsi come una comunità.
Una comunità che stenta a parlare con una sola voce, che applica i principi a geometria variabile, che predica solidarietà e pratica spesso l’autosufficienza, che difende lo Stato di diritto a parole e lo negozia nei fatti, che chiede sacrifici in nome della stabilità mentre tollera disuguaglianze crescenti ed un progressivo svuotamento della partecipazione democratica. 

Anche l’Europa a Natale si concede qualche dichiarazione solenne. 

Poi, passato il 6 gennaio, tornano le mediazioni opache ed i compromessi al ribasso.

In questo scenario, il Natale rischia di diventare una pausa ipocrita. Una parentesi emotiva utile a rimuovere, anche solo per qualche giorno, la responsabilità collettiva.

Un momento in cui ci si commuove senza trarne conseguenze, ci si indigna senza memoria, si invoca la pace senza chiedersi cosa siamo disposti a fare – o a non fare – per renderla possibile.

E l’Italia non fa eccezione, recitando il copione di sempre.

A Natale tutti diventano buoni: si riscopre la famiglia, la tradizione, persino il presepe. 

Poi, passato l’effetto delle feste, tornano i toni muscolari, i nemici da additare, la forza contro la complessità, una politica che promette protezione ma restringe orizzonti, che invoca responsabilità ma governa a colpi di emergenze, che non sa tramettere ai cittadini alcuna visione del futuro.

È un pendolo ormai prevedibile, quasi noioso, se non producesse effetti reali sulla vita delle persone.

In questo scenario torna spesso anche la tentazione della nostalgia.
I “bei Natali di una volta”, evocati come un tempo migliore, più autentico, più umano. 

Ma è una scorciatoia emotiva che convince poco. 

Quei Natali erano diversi perché diversa era la società: più povera, meno consumistica. Certo meno coinvolta nel rito dei regali che oggi, a guardare i telegiornali, sembra diventato una vera e propria ossessione di massa.

Che fossero Natali migliori, francamente, è impossibile dirlo.
Di una cosa però si può essere ragionevolmente certi: allora lo spirito religioso del Natale era più diffuso, più condiviso, più presente nella vita quotidiana della gente comune. 

Non per questo automaticamente più autentico, ma certamente più centrale. 

Riconoscerlo significa però aprire una riflessione più scomoda, che riguarda la progressiva scristianizzazione della società europea, la perdita di un orizzonte simbolico comune, la trasformazione delle Feste in eventi quasi esclusivamente commerciali. 

In questo quadro, il Natale diventa una gigantesca operazione di rimozione collettiva.
Una tregua emotiva che serve più a tranquillizzare le coscienze che ad interrogare le scelte. 

Ci si commuove per una notte, ci si indigna per qualche ora, poi tutto torna come prima. 

Le stesse parole, le stesse paure, le stesse scorciatoie.

Forse anche per questo il Natale va “addomesticato” ogni anno.
Reso innocuo, sentimentale, inoffensivo. 

Perché un Natale preso sul serio – religioso o laico che sia – porrebbe domande difficili: che valore diamo alla vita umana quando entra in conflitto con gli interessi? Quanto siamo disposti a difendere la dignità, non solo a proclamarla? Che cosa resta dei nostri valori quando smettiamo di ripeterli ed iniziamo a praticarli?

Scrivere di Natale, allora, non significa distribuire consolazioni.
Significa rifiutare l’idea che tutto sia inevitabile. 

Che la guerra sia un destino, che la disuguaglianza sia naturale, che la paura sia una buona consigliera politica. 

Significa difendere, almeno per un momento, il diritto al dubbio ed alla complessità.

Per questo i miei auguri, quest’anno, non possono essere “zuccherosi”.
Possono solo essere sinceri.

Quindi, anche a nome della Redazione di Tviweb auguro a tutti voi un Natale che non serva a rimuovere la realtà, un Natale che non anestetizzi le coscienze, ma che lasci qualche domanda aperta. 

Che non prometta miracoli, ma che almeno ci impedisca di chiamare “normale” ciò che normale non è.

Non cambierà il mondo, né il corso della storia.

Ma forse potrà evitare che la rassegnazione diventi l’unica opzione possibile. 

E, in tempi come questi, è già una forma di resistenza civile.

Umberto Baldo e la Redazione di Tviweb

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