24 Aprile 2020 - 9.57

PASSAGGIO A NORD – Salvare le api per salvare il pianeta

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È un giorno di sole, di quelli che ultimamente possiamo guardare solo attraverso la finestra. Una vespa mi ronza vicina. Anche quest’anno, penso, sceglieranno di fare il nido nel cassonetto della tapparella. Mi chiedo se abbia il sentore che fra poco chiamerò l’uomo che sussurra alle api. Paolo Fontana lavora come ricercatore presso la Fondazione Edmund Mach dal 2009 ed è un apicoltore da oltre 30 anni. Per quindici anni ha lavorato come tecnico alla facoltà di Agraria dell’Università di Padova. È quindi un entomologo di formazione e da sempre un grande appassionato di insetti. È stato coinvolto in molti campi di ricerca, sia nell’ambito dell’entomologia applicata che in ambiti più naturalistici. Ha descritto più di ottanta nuove specie, sedici nuovi generi di insetti e ha all’attivo 271 pubblicazioni, tra libri, articoli scientifici e divulgativi. Ma è solo quando mi confessa che, a causa di lavori pubblici, ha dovuto momentaneamente spostare gli alveari della sua casa di Isola Vicentina, che capisco il perché di questo soprannome. «Non vedo l’ora di poterli riportare nel mio giardino. Qui avevo una pietra dove mi sedevo, proprio di fianco a queste arnie. Per me era una terapia guardare l’andirivieni delle api nell’alveare, sentire il loro profumo e il loro ronzio. Appena possibile le riporterò a casa. Sai, ne ho centinaia in giro per lavoro, ma quelle lì le guardavo quasi tutti i giorni per rilassarmi». D’un tratto capisco che alcune persone non solo conoscono la natura più di altre, ma sono fatte soprattutto per amarla e per aiutarci a comprendere la poesia che si cela dietro ogni cosa.

Le api sono fondamentali per la conservazione degli ecosistemi, ma anche per la produzione del nostro cibo. Quanto sono preziose e in che modo ci aiutano?    
«In qualità di presidente della World Biodiversity Association mi impegno concretamente anche per la salvaguardia della biodiversità. Sia le api da miele che tutti gli altri apoidei sono insetti che si sono evoluti insieme alle piante. Molte delle piante esistenti sono essenziali per la nostra alimentazione o per il nostro benessere, come ad esempio il cotone e il lino. Da 120 milioni di anni le piante hanno stretto un imprescindibile rapporto con questi insetti: la loro sopravvivenza non può che avvenire attraverso la riproduzione, quindi l’impollinazione e la produzione dei semi. Senza questi insetti, dunque, una gran parte delle piante che compongono i nostri ecosistemi non riuscirebbe a riprodursi. Le piante producono ossigeno e sono i pilatri della biodiversità e degli ecosistemi. Ovviamente tutte le componenti della biodiversità sono fondamentali per la sopravvivenza degli ecosistemi: come in un’automobile, le api sono le ruote della natura e le piante sono il motore. Avere il motore senza le ruote però non servirebbe a nulla. L’impollinazione che questi insetti fanno è particolarmente straordinaria per un motivo fisico: le api hanno una peluria piumata che le rende cariche dal punto di vista elettrostatico e, di conseguenza, attrae il polline sul loro corpo. Questa efficienza nella raccolta del polline ha fatto sì che tutti gli apoidei abbiano, nel corso di milioni di anni, trasformato la loro vita, basando la loro alimentazione esclusivamente sul polline ed eventualmente sul nettare o altri liquidi zuccherini. Tanti altri animali che fanno l’impollinazione in realtà mangiano anche altre cose; mentre le api, dipendendo totalmente dai fiori, sono le più specializzate proprio per necessità. Quella famosa frase attribuita ad Einstein, e che pare che Einstein non abbia mai detto (“Se le api scomparissero, all’uomo rimarrebbero soltanto 4 anni di vita”, ndr), è una frase assolutamente falsa nell’attribuzione ma vera nel contenuto. Se non fosse permesso alle piante di riprodursi, all’uomo resterebbero pochi anni di vita».

Nel tuo libro “Il piacere delle api” parli delle api come modello di sostenibilità e dell’apicoltura come esperienza della natura e della storia dell’uomo. Che cosa possono insegnarci questi piccoli insetti?

«Sicuramente ci insegnano che dipende tutto da quello che noi decidiamo di mangiare. Le api discendono da delle vespe predatrici. Io dico che le api sono leoni diventate gazzelle. Sembra un controsenso, tutti quanti solitamente vogliono diventare leoni. Invece le api hanno adottato questa strategia: prima andavano a mangiarsi gli insetti che andavano sui fiori a mangiare il polline e poi si sono rese conto che il polline era più buono degli insetti. Questo mutamento di strategia alimentare ha interessato anche l’uomo quando 10-12 mila anni fa è nata l’agricoltura. Proprio con l’agricoltura, con l’allevamento degli animali, con la progressiva capacità di trasformare cibi deperibili in qualcosa di conservabile, l’uomo si è potuto trasformare a sua volta da leone in gazzella. Lo ha fatto gestendo il territorio, trasformandolo in parte, come anche le api hanno trasformato la flora con la loro azione di impollinazione differenziata su alcune piante piuttosto che su altre. L’uomo agricoltore non aveva più la necessità di spostarsi e di predare gli ambienti in cui si spostava perché aveva trovato un punto di equilibrio con il luogo in cui viveva. L’agricoltura è nata proprio per questo: mantenere un equilibrio ecologico locale. Oggi invece l’agricoltura è diventata un’industria: con la globalizzazione io non mi preoccupo più, per esempio, di produrre i cereali perché i cereali li produce un altro, ma produco il vino perché posso venderlo ad alto prezzo, oppure produco le eccellenze. Non c’è più un’agricoltura legata al territorio e alla sussistenza, che non è una parola brutta. Penso che lo stiamo riscoprendo in questi giorni: la sussistenza non è autarchia. Il sistema può andare in tilt, diventa prezioso avere delle industrie che producono le cose che ci servono giorno per giorno. Questo è il primo messaggio che ci danno le api: ciò che decidiamo di mangiare determina com’è il nostro territorio. L’altro aspetto invece è socioeconomico: le api, nel corso della loro vita, svolgono diversi compiti, tutti adatti alla loro età. Mentre noi non abbiamo questa elasticità, facciamo i professori, i saldatori, gli imbianchini per tutta la vita. La civiltà contadina, invece, aveva queste finezze: ecco che i lavori piccoli venivano fatti dai bambini, certi lavori di precisione venivano fatti dagli adulti, i lavori di forza dai giovani, l’insegnamento e i lavori più delicati dagli anziani. Ruoli diversi nel corso della propria vita. Anche questa è una lezione da cui la nostra società potrebbe prendere qualche spunto».

Quali comportamenti umani minacciano la vita delle api?

«Tra le minacce più importanti, sicuramente le modificazioni dell’ambiente naturale e coltivato. Non ci sono più abbastanza fiori per le api. Anche i pesticidi sono un problema veramente molto grave, senza dimenticare gli anticrittogamici che danneggiano il microbiota delle api. Come noi usiamo il lievito per fare il pane, la birra, il vino; le api hanno un mondo di batteri che permette loro di digerire il polline al 100%. E ancora, il consumo di suolo e di energia, l’inquinamento, l’industrializzazione, la cementificazione, nonché il rimboschimento per l’abbandono di zone agrarie e marginali e la semplificazione ambientale».

Come si può contribuire alla salvaguardia delle api?

«Dobbiamo cominciare a fare delle scelte. Ogni giorno quando facciamo la spesa, per esempio. Come dice Michael Pollan, tre volte al giorno abbiamo l’occasione per fare la rivoluzione in questo mondo: a colazione, a pranzo e a cena. E possiamo farlo scegliendo di mangiare cibi che sono stati prodotti il più vicino possibile, che siano il più possibile sani per me e per l’ambiente e che siano anche socialmente equi. Perché senza equità sociale non può esserci tutela della biodiversità e dell’ambiente e l’equità sociale deve partire dal nostro territorio. Se voglio le banane, per esempio, logico che non posso comprarle in Pianura Padana, devo però informarmi e scegliere delle banane che hanno pagato chi le ha coltivate, chi le ha raccolte, chi le ha trasportate, ecc. Tutti quanti dovremmo cominciare a ritornare ad alimentarci da un punto di vista nutrizionale, più che da un punto di vista sensoriale. Abbiamo perso il senso dell’alimentazione: ad ogni pasto vogliamo sempre esser stupiti e stupire le nostre papille gustative. Possiamo però anche avere un’alimentazione semplice, cercando i prodotti stagionali. In queste settimane è meraviglioso, nonostante la tragedia che ci avvolge, vedere la gente, nei paesi quanto meno, comprare i prodotti che gli agricoltori locali consegnano a domicilio. C’è un ritorno ad un rapporto diretto tra quello che mangiamo e il territorio e le persone che vivono con noi. Dobbiamo semplificare un po’ i nostri costi: oggi viviamo nella società del tanto che costa poco. Costa così tanto poco che, anche se viene buttato via, ha poca importanza. Questo vale per tutto: dal cacciavite al giocattolo, al vestito, alla scarpa, al cibo. Oggi si fa la spesa preventiva, mentre un tempo si sapeva già cosa serviva in casa e tutto veniva consumato. Una delle principali cause di spreco alimentare è il frigorifero. Compriamo cose assolutamente deperibili, le mettiamo in frigo dimenticandoci che la data di scadenza va avanti lo stesso. Una volta non c’erano i frigoriferi eppure non si buttava via nulla. Compravano quello che andava consumato subito o che si conservava».

Quali altri comportamenti virtuosi potremmo adottare?

«Oggi mangiamo solo ortaggi e frutta che sembrano tirati giù da una ceramica di Capodimonte: la mela bacata viene buttata via. Adesso abbiamo le mele di prima, seconda, terza qualità e così via: se tu non hai la frutta di prima qualità, l’altra sembra non valere nulla al mercato ortofrutticolo. Mangiamo troppo cibo fresco e, spesso, sempre lo stesso cibo: i pomodori, le fragole, la lattuga tutto l’anno. Ognuno di noi deve cominciare a portare la spesa sostenibile a casa perché poi il mercato lo recepisce subito. Se una cosa comincia a stare sugli scaffali, non la prendono più al supermercato. Se non la prendono più, il grossista non la chiede più al contadino e il contadino ne coltiva un’altra con un altro metodo. Tendiamo poi a mangiare troppa carne, perché costa troppo poco rispetto al costo ambientale che ha. C’è questo gioco al massacro per cui gli agricoltori e gli allevatori devono produrre tanto, perché alla fine li pagano poco, mentre mangiamo troppo e poi stiamo male e andiamo dal dietista, in palestra, prendiamo gli integratori vitaminici e così via. Bisogna cominciare a guardare da dove viene il cibo e ad esercitare il proprio libero arbitrio mentre si fa la spesa, senza essere condizionati dalla pubblicità o dalla disposizione sugli scaffali. Se dopo avere letto l’etichetta, il prodotto posizionato negli scaffali all’altezza dei miei occhi non mi convince e mi chino a prendere quello sotto, vedrai che a forza di prendere il prodotto dislocato più in basso, arriveranno a metterlo davanti al mio naso. Iniziamo poi a parlare con i nostri amici delle nostre scelte individuali per dare vita ad un circolo virtuoso».

Alcune persone continuano a temere le api. Che cosa diresti loro per aiutarle a superare questa paura?

«Secondo le statistiche mediche tra le persone punte da imenotteri ogni anno in Italia solo 10-20 individui muoiono, a fronte di 3300 vittime di incidenti della strada e 1000 vittime in incidenti sul lavoro. Diciamo che queste 10-20 persone all’anno muoiono perché hanno un problema di grande allergia al veleno degli imenotteri. È un qualcosa di sbagliato un po’ nel loro corpo, non è un qualcosa di sbagliato nel veleno delle api perché il veleno delle api serve a mandarti via se le infastidisci, non ad ammazzarti. Se pensiamo che siamo più di 60 milioni in Italia e che decine di migliaia di persone fanno gli apicoltori e lavorano con le api ogni giorno, il rischio è davvero molto basso. Quindi, perché abbiamo paura? Intanto perché le api giocano su questa paura: hanno il pungiglione proprio per farci paura e tenerci lontani da loro se andiamo a disturbarle. Non dobbiamo neanche stupirci di averla la paura e dobbiamo tenercela cara perché vuol dire avere il rispetto degli animali. L’unico modo di combattere la paura è conoscere. L’uomo ha paura di tutto perché non sa riconoscere un’ape da una vespa, una formica da un coleottero. È la nostra lontananza dalla natura che ci fa avere paura di tutto. È una paura preventiva che deriva dall’ignoranza. È impressionante come, molto spesso, questa paura scompaia quando queste persone hanno la possibilità di stare vicino alle api. Quando gliele fai conoscere e le fai avvicinare ad un alveare, questa paura si trasforma in una maggiore attenzione sui comportamenti da adottare per non essere punti, ma non è più una paura isterica».

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