Mia moglie: indagati centinaia di veneti che postavo foto intime della moglie sui social: è deriva etica

Negli ultimi giorni è emersa una vicenda che scuote profondamente le coscienze e mette in luce una deriva etico-morale che non può più essere ignorata. Un gruppo Facebook chiamato “Mia moglie”, attivo dal 2019 e arrivato a contare decine di migliaia di iscritti, è stato smascherato e chiuso da Meta dopo che al suo interno uomini condividevano fotografie intime delle proprie partner, spesso scattate o diffuse senza alcun consenso. Non si trattava solo di immagini private rubate, ma in molti casi di contenuti manipolati o generati con intelligenza artificiale, sempre con l’obiettivo di esporre le donne a commenti sessualmente espliciti e umilianti. La scoperta ha portato a un’ondata di segnalazioni alla Polizia Postale e ha aperto la strada a indagini che, secondo quanto emerso, coinvolgerebbero anche centinaia di veneti.
Il fatto che una regione come il Veneto, storicamente legata a valori tradizionali e familiari, risulti così pesantemente coinvolta, non è soltanto un dato giudiziario, ma rappresenta un campanello d’allarme culturale. Esporre la propria moglie o compagna a una platea virtuale senza che questa lo sappia significa ridurre la persona amata a un oggetto di consumo, svuotando di senso il concetto stesso di intimità e di rispetto reciproco. Non è più solo un problema di devianza individuale, ma il segno di un cortocircuito sociale dove l’identità digitale e la ricerca di approvazione online prevalgono sulla dignità della persona.
Questa vicenda ci obbliga a riflettere sulla fragilità del concetto di consenso nel mondo contemporaneo. Troppe volte la sfera privata viene considerata terreno di gioco o di esibizione, senza alcuna consapevolezza delle ferite che può causare. Nel caso di “Mia moglie” si è andati ben oltre lo scherzo o la leggerezza: si tratta di un vero e proprio abuso, riconosciuto dalla legge italiana come reato grave, punito con pene severe. Eppure, dietro quei clic e quelle condivisioni, c’è una normalizzazione preoccupante, un modo di pensare che trasforma la complicità di coppia in spettacolo pubblico, come se l’intimità non fosse più un dono privato, ma un contenuto da offrire al branco.
Il Veneto non è immune da queste dinamiche, anzi: la partecipazione di centinaia di uomini della nostra regione mostra come la cultura del possesso e della sopraffazione possa annidarsi anche nei contesti più insospettabili. È facile parlare di valori, di radici, di famiglia, ma i fatti dimostrano che quando il rispetto manca, quei valori si svuotano di significato. Non si tratta di moralismo né di indignazione passeggera: è in gioco la capacità di una comunità di riconoscere il confine tra ciò che è giusto e ciò che è abuso, tra la libertà e la violenza.
Occorre ammettere che le piattaforme digitali hanno una responsabilità immensa, perché senza adeguati strumenti di controllo e prevenzione questi spazi diventano terreno fertile per fenomeni distruttivi. Ma la responsabilità principale resta personale e collettiva: non basta invocare la censura o le leggi più dure se non si costruisce una cultura del consenso e del rispetto. La tecnologia non crea da sola il male, lo amplifica quando trova terreno fertile. E questo terreno, purtroppo, esiste ed è fatto di superficialità, di sessismo interiorizzato, di incapacità di vivere le relazioni come scambio paritario.
L’indignazione di questi giorni deve quindi trasformarsi in occasione di cambiamento. Non solo processi e condanne, ma un ripensamento profondo dell’educazione affettiva e digitale, a partire dalle scuole e dalle famiglie. Serve riconoscere che la dignità non è negoziabile e che l’intimità non è mai materia di condivisione senza consenso. Solo così episodi come quello del gruppo “Mia moglie” potranno davvero rappresentare una svolta, un limite invalicabile, invece di restare l’ennesima cronaca scandalistica che domani verrà dimenticata.













