Italia: dove ogni governo vuole la sua legge elettorale su misura

Umberto Baldo
Ieri abbiamo parlato in generale del problema della legge elettorale, e delle tentazioni di ogni maggioranza politica di modificarla per garantirsi la vittoria anche alle elezioni successive.
Non a caso l’ho definito “vizietto italico”; perché il Belpaese rappresenta un unicum nel panorama delle democrazie occidentali (nell’ordine Legge truffa del 1953, Mattarellum, Porcellum, Italicum, Rosatellum).
Oggi ci caliamo invece nell’attualità, cercando di capire perché la maggioranza di centro destra abbia cominciato a parlare di legge elettorale subito dopo le regionali di domenica scorsa.
In estrema sintesi si può dire che dalla nascita della Repubblica fino al 1993 ci fu la lunga stagione del proporzionale, interrotta appunto nel 1993 dal Mattarellum, che introdusse la novità dei “seggi con il maggioritario”.
Da allora tutte le riforme sono più o meno intervenute sul rapporto fra collegi maggioritari e quota proporzionale.
L’attuale legge elettorale, il cosiddetto Rosatellum, prevede che circa due terzi dei seggi parlamentari siano attribuiti su base proporzionale, e circa un terzo sulla base degli scontri diretti nei collegi uninominali, quelli dove ogni coalizione presenta un proprio candidato, e chi prende più voti degli altri ottiene l’elezione (sistema maggioritario).
Ma perché Giorgia Meloni sembra determinata a cambiare le norme attuali?
Su che cosa sembra (il condizionale è d’obbligo visto che progetti compiuti non sono noti) si stia ragionando?
La scelta sembrerebbe orientata verso il ritorno al proporzionale puro, soprattutto per la volontà di eliminare i collegi uninominali; un proporzionale però corretto dall’attribuzione di un robusto premio di maggioranza, ovvero un bonus che consenta alla coalizione che arriva prima di assicurarsi una maggioranza sufficientemente ampia di deputati e senatori (per garantire la mitica “governabilità”, la foglia di fico di tutte le riforme elettorali).
Il motivo è duplice.
Da un lato, essendo il Partito più grande, Fratelli d’Italia per tenere unita la coalizione è costretta a cedere agli alleati più seggi di quelli che spetterebbero loro.
Ve l’ho rimarcato altre volte: è per questo ad esempio che oggi la Lega, pur avendo a livello nazionale circa un terzo dei voti dei Fratelli ha una rappresentanza parlamentare che è più della metà di quella di FdI (65 contro 116 alla Camera; 29 contro 63 al Senato).
Ma quel che più pesa è che con i collegi uninominali conta molto di più la loro distribuzione nelle varie aree d’Italia, soprattutto per quanto attiene al Senato.
In altre parole, ed in estrema sintesi, con i collegi uninominali non è tanto importante vincere di molto in pochi collegi, ma vincere anche di poco in molti collegi: perché significa ottenere più seggi, pur avendo magari meno voti complessivi.
Secondo la Meloni l’attuale sistema darebbe un implicito vantaggio al centrosinistra, se si presentasse al voto unito com’è oggi (anche se il futuro del campo largo per me è tutto da vedere) e non diviso come avvenne nel 2022.
Tanto più che le elezioni dimostrano che la destra sembra non avere più il vento in poppa sia nell’Italia centrale che in quella meridionale.
Qualcuno si sarebbe dilettato nel fare anche qualche simulazione, da cui risulterebbe che un centro sinistra unito conquisterebbe 22 seggi in più di ora, di fatto togliendo al Centrodestra la maggioranza al Senato.
Nonostante la tendenza verso il proporzionale, e quindi teoricamente con la logica del “ognuno per sé e Dio per tutti”, sembra che la Premier vorrebbe fosse indicato sulla scheda elettorale il nome del candidato Presidente del Consiglio della coalizione.
Capite bene che in tal modo verrebbe introdotta, surrettiziamente, quella stessa modifica che FdI avrebbe voluto adottare con la riforma costituzionale del cosiddetto “premierato”, la cui approvazione si sta rivelando più lunga e complicata del previsto.
E’ chiaro che l’indicazione del futuro premier, per una sorta di effetto trascinamento, favorirebbe il Partito che lo esprime, e questo spiega perché né Matteo Salvini né Antonio Tajani sembrerebbero entusiasti di questa proposta: per loro l’unica a guadagnarci, a loro discapito, sarebbe proprio Giorgia Meloni.
Relativamente al premio per la coalizione vincente, ovviamente lo si vorrebbe molto consistente, ma questo cozza contro l’orientamento della Corte Costituzionale che nel 2017 stabilì il principio per cui il correttivo maggioritario al voto non può essere troppo corposo, perché altrimenti distorcerebbe la rappresentatività.
Insomma, il premio di maggioranza deve essere limitato (in quel caso, consentendo a chi raggiungeva il 40 per cento dei voti di ottenere il 55 per cento dei seggi della Camera, venne ritenuto eccessivo dalla Consulta).
Per di più c’è anche il problema che l’estensione di questo premio al Senato su scala nazionale sembra molto difficile, perché il Senato, secondo la Costituzione, «è eletto a base regionale”.
A questo punto capite bene che cambiare la legge elettorale non è mai una passeggiata, perché sono troppe le variabili e molti gli ostacoli da superare.
Certo sarebbe tutto più facile se la legge nascesse da un accordo con le opposizioni; cosa che io vedo quasi impossibile in questa fase, in cui la Schlein vede anche lei un cambio di rotta a favore della sinistra proprio in virtù della legge elettorale vigente.
Tanto più che sembra che la Premier non voglia rinunciare nemmeno all’idea dei listini bloccati, che consentono ai leader di partito di scegliere, a scapito degli elettori, chi debba andare in Parlamento.
Ma, sempre per non contraddire le indicazioni della Corte costituzionale, i listini devono essere corti, così che l’elettore possa comunque conoscere la persona che contribuisce a eleggere con il proprio voto.
Questo tema rappresenta senz’altro un ulteriore ostacolo nel rapporto con le opposizioni, che sembrano ferme nel chiedere la reintroduzione delle preferenze dirette, quelle per cui bisogna scrivere il nome del candidato o della candidata scelta, come avviene per le regionali e le europee.
Vedrete che sarà proprio la proposta di una nuova legge elettorale a tenere impegnata la politica nell’immediato futuro.
E vedrete che vi racconteranno sempre la bubola che non lo si farebbe per favorire una parte politica, bensì per una migliore governabilità.
In realtà, nonostante tutte le favole che cercheranno di rifilarvi, è bene prendiate atto di una verità inconfutabile: il sistema elettorale perfetto non esiste.
In verità, e lo stiamo vedendo oggi, anche lo “schema bipolare” sta avendo qualche difficoltà.
Viviamo una fase di politica frammentata, dopo la fine dei Partiti ideologici e l’avvento di formazioni “cesaristiche” poggiate sull’emotività elettorale piuttosto che su sistemi di pensiero coerenti.
L’unica cosa che resta sul terreno è una violenta polarizzazione con l’irriducibile antagonismo tra due emisferi che non si concedono il riconoscimento reciproco.
Ecco perché tutti i Partiti dovrebbero muoversi per riannodare il rapporto con il corpo elettorale, e così anche per ridare fiato ad un Parlamento che ormai si è ridotto ad organo di ratifica dell’azione di governo, ed a produttore voluttuoso di inutili ordini del giorno.
Ma capisco che questa possa sembrare utopia.
Umberto Baldo













