Veneto, la Lega c’è ma comanda Giorgia. Il Doge è salvo, ma il leone ruggisce piano

Umberto Baldo
Se dovessi tradurre in linguaggio calcistico l’esito della partita “Regionali del Veneto”, il tabellone direbbe: Fratelli d’Italia 3 – Lega 0.
Sì lo so, starete pensando: ma come, se il candidato Presidente sarà il leghista, Alberto Stefani!
Giusto.
Ma in politica, come nel calcio, il punteggio finale non lo fanno solo i gol segnati: contano anche chi paga lo stadio, chi sceglie l’allenatore e chi decide le sostituzioni.
E qui, mi pare, la palla l’hanno toccata in pochi, ma i comandi restano saldamente in mano a Giorgia Meloni ed ai suoi Fratelli d’Italia.
Partiamo dall’inizio.
Per chi ha memoria lunga, lo slogan più gettonato della Liga Veneta era “Paroni a casa nostra”.
Oggi, a giudicare dagli ultimi accordi, pare più un “Paroni sì, ma su gentile concessione di Roma ladrona”.
Un po’ come se la secessione del Nord si fosse fermata al casello di Melegnano.
Quanto al candidato, niente da dire sulla sua “veneticità”: Alberto Stefani è nato a Camposampiero nel 1992, e in politica ha bruciato le tappe come un velocista.
Deputato nel 2018, sindaco di Borgoricco, Commissario nominato dal Capitano, Segretario regionale eletto nel 2023, e ora candidato Governatore.
Un curriculum da golden boy che in altri tempi l’avrebbe portato dritto ad un Ministero.
Peccato che la sua corsa fulminea faccia dire ai più maliziosi che Stefani non sia solo un astro nascente, ma anche un astro… satellitare; in orbita fissa attorno al “Capitano”.
Niente di male, per carità.
Ma se ogni decisione veneta deve comunque passare al vaglio di via Bellerio, allora “autonomia” diventa solo una parola da manifesti elettorali.
La conferma arriva anche dal bar, o meglio, dall’edicola.
Ieri mattina mentre prendevo il giornale, un leghista d’antan borbottava: “Dopo gli accordi romani, a Venezia ci mettono un salviniano doc, ma poi lo tengono in ostaggio i Fratelli d’Italia… un cocktail mostruoso!”.
E aveva l’aria di uno che di pozioni indigeste ne ha già bevute parecchie.
Già, perché questo accordo, che ha sbloccato anche Puglia e Campania, sembra più un compromesso da manuale che un trionfo politico.
Stefani dovrà vedersela con il fantasma del 77% di Zaia del 2020, e con una differenza sostanziale: Zaia era un uomo solo al comando, senza opposizione ma, a ben vedere, anche senza alleati.
D’altronde, con i numeri che aveva, non ne aveva bisogno; poteva fare il bello ed il cattivo tempo.
Stefani al contrario sarà un uomo “circondato”.
Dai Fratelli d’Italia, convinti che il Veneto “spettasse a loro per diritto di voti”, e che quindi cercheranno di dimostrare che il partito guida ormai sono loro.
Da Forza Italia, dove Flavio Tosi scalpita come un ex che non ha ancora digerito il divorzio con Zaia.
E da una Lega che ormai deve misurarsi con l’inevitabile ridimensionamento post-zaiano.
Una Lega che, pur mantenendo la Presidenza, dovrà fare i conti con rapporti di forza molto diversi.
E se con mille contorsioni Salvini alla fine è riuscito a mantenere “il Doge”, i numeri sono impietosi, e Fratelli d’Italia avrà buon gioco ad accaparrarsi molti Assessorati di peso.
Le indiscrezioni dicono che, su 10 assessori, 5 andranno a FdI ( si parla di Sanità, Bilancio, Agricoltura, Lavoro, più la presidenza del Consiglio regionale), 3 alla Lega e 2 a Forza Italia.
Sanità e Sociale tornerebbero a dividersi: la prima ai Fratelli, il secondo— che gestisce fondi europei consistenti — alla Lega.
Trasporti e Infrastrutture seguirebbero lo stesso schema: ai Fratelli il trasporto pubblico locale, al Carroccio la “battaglia della vita” sulla Brescia–Padova, per portarla in house tramite Cav e riequilibrare i conti della Pedemontana.
La Lega punterebbe comunque a quattro assessorati: Sociale, Infrastrutture, Sviluppo economico e Ambiente.
FdI avrebbe anche Cultura e Turismo, mentre Stefani dovrebbe tenere per sé la delega sull’Invecchiamento attivo ((forse un pensiero affettuoso per i tanti elettori nostalgici della prima ora).
Forza Italia, più defilata, si dovrebbe accontentare di Lavoro e Formazione: non certo la Sanità che Tosi sognava.
Naturalmente, questa spartizione è solo teorica. Molto dipenderà dal voto.
E se i risultati dovessero ribaltare gli equilibri, le caselle torneranno a muoversi
Ma il vero punto è politico: l’accordo tra Meloni e Salvini — quello “vis a vis” — vale come una stretta di mano da spartizione postbellica.
La premier ha lasciato il Veneto alla Lega, ma in cambio si è presa la “prelazione” sulla Lombardia 2028 (Salvini si è impegnato a riconoscere il “diritto” di individuare il candidato per le elezioni del2028 al Partito con il “più recente maggior peso elettorale“ nella coalizione precedente il voto).
Tradotto: oggi tocca a te, domani comando io.
E così se FdI alle politiche del 2027 in Lombardia resterà il primo partito del centrodestra, il Pirellone sarà suo di diritto.
Una mossa astuta, che potrebbe spostare l’asse del potere del Nord, e segnare la fine del dominio padano.
E Zaia?
Dopo aver flirtato con l’idea di una lista personale, che nessuno voleva neanche in fotografia, ora sembrerebbe intenzionato a sfilarsi, visto che non sarà neppure capolista.
E a chi lo immaginava nel ruolo del “burattinaio”, ha risposto con parole che sanno di commiato più che di minaccia: “….io non ho mai creduto al Grande Fratello. Sono stato presente in Provincia, poi non sono più entrato in Provincia dopo la mia uscita. Idem col ministero e idem farò qui, nel senso che se non ho coinvolgimento con cariche trovo assurdo che ci sia qualcuno che è convinto da fuori di governare. È una roba anche meschina. Non l’avrei accettato io, non capisco perché qualcuno lo debba accettare”.
Ecco, almeno su questo, tanto di cappello.
In un mondo politico dove tutti vogliono restare in cabina di regia anche da pensionati, Zaia si sfila in silenzio, e lo fa con la dignità dei veri padroni di casa.
Quelli che, appunto, erano “Paroni a casa nostra”.
Umberto Baldo













