Tax credit. Il cinema italiano e il rischio d’impresa… degli altri

Umberto Baldo
Ci voleva un delitto orrendo, consumato sotto il sole romano di inizio estate, per illuminare a giorno, e con riflettori cinematografici, ça va sans dire, uno dei più incomprensibili sussidi del nostro tempo: il “tax credit” al cinema.
Una vicenda che sembra uscita da una serie noir, e invece è tutta reale.
In realtà a collegare le due vicende sono i cadaveri di due donne, madre e figlia, rinvenuti a Villa Pamphili, ed il loro legame con l’omicida, un certo Francis Kaufmann, meglio noto in Italia con il nome esotico e pretenzioso di Rexal Ford, uno che si spacciava per regista statunitense.
In verità un truffatore seriale, e come spesso accade, più credibile dell’intero sistema che lo ha accolto a braccia aperte.
Ma andiamo con ordine.
Siamo nel 2020, e mentre l’Italia chiudeva tutto per la pandemia, il nostro “cineasta” bussava alla porta dello Stato per ottenere il “tax credit”, ossia il generoso credito d’imposta per produzioni cinematografiche.
E indovinate un po’? Lo ha ottenuto.
Nel 2023, a consuntivo, senza che nessuno si fosse preso il disturbo di chiedere “scusi, ma il film dov’è”?
E così, a quanto risulta dalle cronache, sembra si sia visto accreditare 863.000 euro, di soldi pubblici, di soldi di noi contribuenti, per un’opera che, a quanto si sa, sembra non essere stata mai pensata, mai girata, mai scritta, mai vista cronache (ma le inchieste avviate spero ci diranno di più).
Ma regolarmente “certificata” come “culturalmente rilevante”.
Guardate, al di là del fatto di cronaca nera, orrendo e agghiacciante fin che si vuole, la vicenda stimola una inevitabile domanda: ma come è stato possibile, ma perché questo meccanismo esiste?
Perché, nel 2025, uno Stato civile dovrebbe pagare milioni a registi, produttori, attori, spesso per girare film che non guarda nessuno?
Perché il cinema ha diritto ad essere foraggiato mentre un bar, un artigiano, un’edicola no?
Ma il bello della vicendaè che Rexal Ford non è un incidente.
È uno specchio. Un concentrato, grottesco ma esatto, di un intero sistema parassitario, autoreferenziale, culturalmente anestetizzato.
Un sistema in cui si girano film che nessuno vedrà premiati, e chi osa suggerire una riforma viene tacciato di oscurantismo.
Non sono un esperto del settore cinematografico, ma sono sufficientemente esperto del “sistema Italia” per realizzare che il Tax Credit, nato per “incentivare la produzione artistica nazionale”, è diventato negli anni un gigantesco bancomat per produttori furbi, attori dimenticabili, sceneggiatori da sagra paesana, e società di produzione nate apposta per “fare domanda”.
Il meccanismo?
Semplice: tu dichiari che spenderai 2 milioni per girare un film, e lo Stato ti rimborsa il 40%.
Anche se poi il film fa dieci spettatori e un cane randagio.
O, più elegantemente, non esce affatto.
Vi ricorda qualcosa?
Ma sì ragazzi, è la stessa identica logica con cui è nato il Superbonus 110%; la logica secondo cui l’ investimento di denaro pubblico a fondo perduto in un settore produttivo genera la sua crescita, oltre che un effetto trascinamento per altri settori, per cui fra crescita del Pil ed imposte pagate il sistema di fatto finirebbe per auto-finanziarsi
Peccato che nel BelPaese questo tipo di finanziamenti siano tutti erogati a maglie larghe, senza nessun obiettivo di pianificazione da parte del regolatore, e con delega alla Magistratura per il controllo di truffatori e furbetti; un vero e proprio invito a nozze per ogni tipo di malvivente.
Poteva andare diversamente con il Tax Credit per il cinema?
Ovviamente no, visto che siamo pur sempre la “Repubblica di Pulcinella”!
E così a chi importava che nessuno vedesse i film prodotti e finanziati dallo Stato?
A nessuno.
L’importante era aver prodotto. Sì, prodotto: come se stessimo parlando di barattoli di marmellata. Se poi quella marmellata sa di muffa, poco male.
Il finanziamento rimane salvo, e magari c’è anche un premio in qualche festival che si tiene in una sala conferenze di un hotel sulla Salaria.
L’apice della tragicommedia si è raggiunto a mio avviso quando alcuni attori, registi e produttori italiani sono scesi in piazza contro il ministro Sangiuliano, colpevole, a loro dire, di “distruggere la cultura”.
Il ministro, reo di aver proposto una banale riforma di trasparenza e valutazione dei risultati, si è visto trattare come Attila.
Eppure le sue parole di allora sono semplici come l’acqua: “Ho cambiato il sistema trovando gigantesche resistenze da parte di una lobby tanti potente quanto corrotta che me l’ha fatta pagare….. Film finanziati e mai usciti. Altri costati milioni con incassi ridicoli. Registi strapagati per flop colossali. Un meccanismo perverso”.
A parte che il Sangiuliano la “cadrega” l’ha persa più per una questione “sentimentale”, gli va dato atto di aver comunque alzato il velo sul problema.
Ma la domanda di fondo, alla quale qualcuno dovrà rispondere prima o poi, è a mio avviso la seguente: perché il cinema dev’essere sussidiato coi soldi di chi lavora?
Perché mai io, tu, noi, dovremmo pagare con le nostre tasse il cortometraggio in bianco e nero girato su un trattore nel Casentino, in cui un gallo rappresenta l’ansia capitalista e una badante moldava l’eterno femminino?
Logica vorrebbe che se un film è buono, troverà il suo pubblico.
Se non lo trova, pazienza.
Ma non è accettabile che venga pagato con i soldi pubblici solo perché “è cultura”.
Lo so che su questo tema rischio molto.
Ma non ho paura di affermare che “cultura” non è una parola magica, e che di conseguenza non tutto ciò che si proclama “arte” lo è.
I cineasti del sussidio dovrebbero provare, almeno una volta nella vita, a confrontarsi con il mercato. Per capire che se fai un film, e nessuno va a vederlo, magari il problema non è il pubblico: sei tu.
E mentre l’Italia chiude reparti ospedalieri, fatica a mantenere scuole, lascia soli gli anziani, continua a elargire milioni a “prodotti culturali” invisibili, firmati da registi che non sono certo dei Sergio Leone, e interpretati da attori che vivono di cachet pubblici e selfie malinconici su Instagram.
E allora basta, diciamolo chiaramente: il tax credit al cinema è diventato il Superbonus della cultura.
Un pozzo senza fondo. Un alibi per incassare con stile. Il paradiso dei furbi col ciak. Un’illusione tragica in cui l’arte si trasforma in rendita e la creatività in contabilità.
Chiudiamo allora così, con la più polemica delle verità: in Italia, e badate bene che non parlo solo di cinema, bensì di altri interi comparti produttivi in qualche modo mantenuti in vita (come nell’ex Urss), è la logica del sussidio quella che va riformata.
Una logica, un film, in cui noi contribuenti siamo sempre le comparse. Non pagati. Ma tassati.
Umberto Baldo
PS: sono pronto a scommettere che, su pressioni e piagnistei dei soliti “noti” sostenitori della “cultura” italica, si cercherà di tenere in piedi in qualche modo il baraccone mangiasoldi del “Tax credit”. Ma credetemi che la sola soluzione dopo questo scandalo è quella di chiudere “baracca e burattini”.
E se proprio si vuole, dopo che le società che vivono di “sussidi” avranno chiuso i battenti per sempre, fra qualche anno si potrà magari pensare a qualcosa di nuovo. Qualcosa che cerchi di ristabilire un equilibrio tra intervento pubblico e logiche di mercato. In caso contrario, continueremo a produrre film che nessuno vede, con soldi che nessuno controlla, in un sistema che si autoalimenta fino al prossimo scandalo.
Rimane la tristezza che in questo Paese qualunque iniziativa preveda contributi pubblici finisce sempre con truffe diffuse.
Ahi serva Italia…………













