2 Agosto 2025 - 8.58

“Terroni di merda” Razzismo che non vogliamo vedere, o altro?


Umberto Baldo

Il razzismo in Italia non esiste. È solo una percezione. Una svista. Un’invenzione dei “buonisti”.
E soprattutto roba da americani, da suprematisti, da poliziotti bianchi col manganello facile.
Confesso che mi ha disturbato.
Sì, davvero, mi ha colpito quel video, girato in un normale appartamento veneziano, in cui una studentessa del Sud viene cacciata con un urlo che pesa più di uno schiaffo: “Sei una terrona di merda!”
Ora, possiamo pure cavarcela con la solita scusa: “Era arrabbiata, ha perso la testa, capita…”, e la lingua, si sa, è più sincera del cuore
Ma allora mi chiedo: perché, tra tutti gli insulti possibili del vocabolario italiano, ha scelto proprio quello?
Perché proprio “terrona”, come se fosse l’offesa regina, la più efficace, la più viscerale?
Cos’è? Un evergreen? Un classico sempreverde tipo “Natale con i tuoi”?
Oppure sotto sotto, “terrona” per qualcuno è ancora l’offesa perfetta, quella definitiva, l’equivalente verbale del lanciafiamme?
Siamo a Venezia, nel cuore del nostro Veneto, e purtroppo, non è la prima volta che succede.
Un anno fa, sempre nella città lagunare, un gruppo di studenti napoletani in gita è stato apostrofato per strada con epiteti da trivio: “Terroni di merda, tornate a casa vostra”, e per le ragazze, peggio ancora: “Troie, non vi vogliamo”.
Nel 2025, davvero dobbiamo ancora parlare di “razzismo interno”?
Sì, purtroppo sì. Perché l’antimeridionalismo – chiamiamolo con il suo nome – è ancora vivo, carsico, latente ma presente.
Si annida nelle battute da bar, negli sguardi infastiditi, nei criteri di selezione (non scritti) di certi affitti universitari, nelle recriminazioni su “quelli che vengono qui e si comportano come se tutto fosse loro dovuto”.
Personalmente – lo dico senza pose – ho sempre avuto un rapporto limpido e caloroso con il Sud. Nella mia carriera ho frequentato tutte le Regioni meridionali, e ne conservo amicizie profonde, sincere.
Ma so anche che il Veneto ha incubato per anni la Liga Veneta, la Liga delle origini prima della Lega salvianiana, con i suoi slogan brutali: “El leòn che magna el teròn”, “Fòra i teròni dal Veneto!” “Teròni, fuori dai coglioni!”.
E ne potrei citare altri, ma mi fermo qui.
Sulle cause storiche delle fratture tra Nord e Sud sono stati scritti volumi interi.
Ma oggi non mi interessa fare lo storico. Mi interessa il presente.
E nel presente, quando parlo con la gente, anche con i giovani, sento ancora quell’eco fastidiosa, quell’idea subdola che chi viene dal Sud valga “un po’ meno”.
Non lo si dice apertamente, certo. Ma si allude. Si insinua.
Il meridionale? “Un po’ mafioso”, “un po’ furbo”, “un po’ nullafacente”.
Come se fosse un marchio etnico, una tara ereditaria.
Lo abbiamo visto anche con Geolier, a Sanremo.
Bersagliato prima ancora di cantare. Non per il testo, ma per il dialetto.
Il napoletano, che per alcuni è già colpa di per sé.
E allora l’Italia si è spaccata: chi lo ha difeso e chi lo ha disprezzato, non per la musica, ma per la provenienza.
Lì abbiamo capito che l’antimeridionalismo esiste ancora. Solo che ora indossa abiti nuovi: il gusto, la lingua, la presunta “incompatibilità culturale”.
E c’è di più.
Guardate, sempre parlando con la gente, qualcuno si sbottona, anche qualche giovane in verità che per motivi di studio divide l’appartamento con un coetaneo meridionale; e allora ti racconta di “atteggiamento supponente”, di “arroganza”, di parenti che vengono a trovarlo continuamente, occupando spazi comuni e così dando fastidio, ti dice che “parlano sempre forte”, che “sembrano sempre in festa”.
Non sono uno psicologo, e quindi non sono in grado di classificare questo “malessere”, questa difficoltà a convivere.
Sicuramente la gente Sud è molto più aperta, più socievole, forse più “caciarona” di noi del Nord (ma non generalizzerei poi più di tanto), ma mi rendo conto che se due giovani universitari trovano qualche difficoltà a convivere, e si arriva a parlare di differenze “culturali”, l’antimeridionalismo è ancora latente nel settentrione italico.
Ed in quest’ottica persino i dialetti, o gli accenti, del Sud vengono considerati, sempre in termini offensivi, “inferiori” rispetto quelli del Nord, come se si potesse gerarchizzare anche il linguaggio.
Finanche gli accenti diventano stigma. Il dialetto veneto è “caratteristico”, quello napoletano, “cafonal”.
Come se anche il linguaggio dovesse sottostare a una gerarchia invisibile.
Questo non è identitarismo, questa è discriminazione.
Una forma di colonialismo culturale interno, strisciante, mai davvero superato.
Chi ha ragione, allora?
I meridionali che si sentono discriminati, o i settentrionali che lamentano “differenze di mentalità e di costumi”?
Non ho una risposta assoluta.
Ma una cosa la so: gli insulti non sono mai giustificabili. Mai!
E quella signora veneziana, mi si perdoni il termine “signora”, avrebbe fatto meglio a trattenere quel “terrona di merda” dietro i denti.
Perché è lì che meritava di restare: nascosto, vergognoso, muto.
Sul resto ho ancora tanti dubbi, tante domande aperte.
Ma mi piacerebbe, se vi va, che ne discutessimo.
Perché è così che si cresce, tutti. Confrontandosi, anche quando fa male.
Quindi aspetto con interesse i vostri commenti.
Umberto Baldo

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