L’Occidente è ancora un modello credibile?

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Umberto Baldo
Penso che ciascuno di voi qualche volta si sia posto la domanda: ma perché i russi ed i cinesi non si ribellano a Putin ed a Xi Jinping, chiedendo libertà e democrazia?
Non c’è il rischio che questa domanda parta da un punto di vista “occidentale”, secondo il quale la democrazia dovrebbe essere il valore fondamentale per tutti?
Guardando la storia potrei dire che la Russia non ha una tradizione democratica paragonabile all’Occidente. Dopo secoli di zarismo e poi di regime sovietico, l’idea che lo Stato sia “padrone” e non “servitore” del popolo è profondamente radicata. Il cittadino russo medio, storicamente, è abituato a uno Stato autoritario, paternalista, in cui l’ordine è più importante della libertà.
Anche in Cina, secoli di dominio imperiale, seguiti da guerre civili e infine dal Partito Comunista al potere dal 1949, hanno creato una società in cui l’idea di “armonia” e “stabilità” è spesso considerata più importante della libertà di espressione. Da considerare poi che la millenaria cultura confuciana dà priorità alla gerarchia e all’ordine sociale, e questo rappresenta sicuramente un fattore importante.
Forse anche noi europei abbiamo dimenticato che fino alla prima guerra mondiale a prevalere nel nostro Continente erano le monarchie e addirittura gli Imperi.
Ma da decenni, in Europa, e più in generale in Occidente, viviamo con la convinzione che il nostro modello democratico rappresenti una sorta di traguardo universale. Un punto d’arrivo storico, morale e politico che, una volta raggiunto, dovrebbe essere condiviso da tutti i popoli del mondo. Un po’ come se la democrazia fosse un “bene di consumo” da distribuire in confezione standard, uguale per tutti.
Ma la realtà, testarda come sempre, ci dice ben altro.
A mio avviso, abbiamo commesso un grave errore: abbiamo creduto che il nostro modello fosse esportabile ovunque, in qualsiasi contesto storico e culturale.
Come se bastasse indire elezioni, stampare una Costituzione, aprire qualche talk show, e voilà: una nuova democrazia è nata!
Purtroppo non funziona così. E non lo dice solo il buonsenso, ma la storia.
La verità è che ogni popolo ha il suo ritmo, la sua storia.
La democrazia occidentale è figlia di un lungo percorso: guerre civili, rivoluzioni, lotte sindacali, conquiste sociali, compromessi faticosi.
Non è nata da un decreto, ma da una lenta e spesso dolorosa maturazione collettiva. È il frutto – imperfetto, ma reale – di un’evoluzione che ha avuto i suoi tempi.
Pensare che altri popoli, con storie, religioni, culture e priorità completamente diverse, possano adottare lo stesso modello solo perché “giusto” secondo i nostri criteri, probabilmente è stato un atto di arroganza culturale.
Montesquieu, uno dei padri del pensiero liberale, avvertiva già nel XVIII secolo: «Le leggi devono essere in rapporto con la natura del popolo per il quale sono fatte». Una verità elementare che molti strateghi occidentali sembrano ignorare.
In linea con le nostre convinzioni siamo poi arrivati al mito dell’esportazione democratica
Per constatare quanto fosse un mito fallimentare basta pensare all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia, alla Siria.
In quanti luoghi abbiamo tentato di “liberare” popoli interi promettendo democrazia e libertà?
E in quanti casi il risultato è stato il caos, la guerra civile, o l’ascesa di forze ben più radicali e pericolose di quelle che si volevano combattere?
Alexis de Tocqueville, profondo ammiratore della democrazia americana, avvertiva: «Ogni popolo ha la sua strada verso la libertà, e imporre la nostra significa spesso distruggerla».
Non si costruisce una democrazia con i droni, né con i think tank di Washington o Bruxelles.
E in effetti, come ha scritto Carl Schmitt, giurista tedesco discusso ma lucido: «La democrazia non è un concetto universale. Esiste solo quando c’è un demos omogeneo che vuole autogovernarsi».
Credo che a questo punto dovrebbe essere evidente che in molte regioni del mondo, quel demos semplicemente non c’è, o non c’è ancora.
Per spiegarmi meglio, una delle verità che l’Occidente si rifiuta di accettare è che molti popoli preferiscono la stabilità alla libertà.
O meglio: non vedono le due cose come alternative, ma come esperienze profondamente legate.
Per molti, un governo forte che garantisca ordine, pane, energia e sicurezza è preferibile a una democrazia instabile, corrotta e litigiosa.
Aveva ragione il sociologo Samuel Huntington quando scriveva che “I valori occidentali di democrazia, libertà individuale e Stato di diritto non sono universali. Sono, appunto, occidentali».
E aggiungeva: “Quando i non occidentali adottano le istituzioni democratiche, spesso le svuotano di significato adattandole alla propria cultura”.
Ma queste considerazioni portano naturalmente ad una domanda conseguente: L’Occidente è ancora un modello credibile?
Il dubbio si pone perché oggi più che mai sono proprio le democrazie occidentali a sembrare in crisi, con Governi paralizzati, disaffezione degli elettori, proteste diffuse, incapacità di decidere, poteri tecnocratici che scavalcano la rappresentanza, limitazioni di libertà (es. Ungheria), crescita di forze antidemocratiche che si richiamano addirittura a regimi passati come il Nazismo.
Quindi, come possiamo pensare di dare lezioni al mondo, se diamo l’impressione di non essere più capaci di governare noi stessi?
Norberto Bobbio, uno dei pochi pensatori italiani veramente liberali, scriveva: «La democrazia si nutre di partecipazione, di fiducia, di cultura civile. Senza questi elementi, resta solo una facciata».
E oggi, spesso, è proprio la facciata che esportiamo.
E in certi casi neanche più quella; basta pensare a Donald Trump, con i suoi attacchi alla stampa, agli studi legali, alle Università.
Badate che non sto dicendo che i diritti umani, la libertà di stampa o la partecipazione politica siano valori relativi.
Tutt’altro. Da liberale credo rappresentino conquiste fondamentali per la dignità dell’essere umano.
Ma un conto è testimoniare questi valori con coerenza e umiltà, cercando il dialogo, un altro è imporli dall’alto, con l’idea (neocoloniale) che il mondo debba uniformarsi a noi.
Cercando una conclusione del ragionamento, credo che pretendere di esportare la democrazia a chi non l’ha chiesta, è come cercare di insegnare la libertà con il manganello in mano.
È un paradosso. È ipocrisia.
È, diciamolo senza girarci attorno, una forma moderna di imperialismo in doppio petto.
Forse prima di insegnare la democrazia agli altri, dovremmo dimostrarci capaci di mantenerla viva in casa nostra, di farla funzionare, di non svilirla con il teatrino elettorale, con la propaganda e con la rassegnazione.
Forse è tempo che l’Europa (e l’Occidente in generale) rifletta anche su sé stessa.
Le nostre democrazie oggi appaiono fragili, burocratiche, divise, spesso incapaci di decisione.
Lungi dall’essere un modello brillante, sembrano faticare a dare risposte concrete ai problemi delle persone.
Questo mina la credibilità di chi pretende di “esportare” un sistema che dentro casa propria mostra tante crepe.
Ecco perché oggi, secondo me, la vera domanda non è: “Perché il mondo non vuole diventare come noi?”, ma piuttosto: “Siamo ancora un modello che valga la pena imitare?”
Umberto Baldo













