26 Maggio 2025 - 16.32

La vera lingua universale dell’Occidente? Non è l’Inglese, è il Latino

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Umberto Baldo

Non so voi, ma io mi sorprendo ancora oggi della rapidità con cui l’inglese si è imposto come lingua franca del pianeta. 

In appena un secolo, meno del tempo che va da mio nonno a mio nipote, è diventato il codice universale del sapere, delle scienze, dell’economia, degli scambi, del commercio, delle trattative internazionali. 

Nessun trattato si firma senza una versione in inglese. 

E anche nelle nostre Università ci sono interi corsi di laurea che si tengono esclusivamente nella lingua di Albione.

L’inglese è la lingua che i nostri nipoti iniziano a imparare a cinque anni e che, paradossalmente, molti dei loro nonni hanno imparato solo dopo la pensione, per curiosità o per necessità di viaggiare.

Io non sono fra questi; al Liceo Scientifico che ho frequentato sono capitato in una sezione in cui si insegnava il francese, per cui il mio inglese si limita alle parole essenziali, che ormai è quasi impossibile non conoscere. 

Ma se allarghiamo lo sguardo oltre il Novecento, scopriamo che l’inglese non è né il primo né il più duraturo idioma a ricoprire questo ruolo. 

Prima, per circa due secoli, fu il francese a dettare legge nei salotti europei e nelle cancellerie: era la lingua delle corti, dei trattati, della moda e della cultura. Fu lingua ufficiale in molte monarchie, e ancora oggi rimane la seconda lingua più studiata al mondo, anche se io ormai sostengo che per riuscire a farsi capire ovunque nel mondo siano sufficienti l’inglese e lo spagnolo.

Ma non facciamoci ingannare;  la vera lingua dell’Europa, la più longeva, la più radicata, la più trasversale, è stata senza dubbio il Latino.

Oggi si definisce spesso il latino come una “lingua morta”. 

Ma in realtà, per almeno 1700 anni, è stata una lingua più viva che mai: non nel parlato quotidiano, certo, ma nella mente, nella penna e nella coscienza collettiva di tutto il Continente. 

Dal IV secolo D.C. fino all’Ottocento inoltrato, chi voleva entrare nel mondo del sapere, della fede, del diritto, della diplomazia o della medicina doveva necessariamente conoscere il latino. 

Non come “reliquia culturale”, ma come strumento attivo di comunicazione e pensiero.

Era la lingua dei Papi e dei dotti, dei giuristi e degli alchimisti, dei cronisti e dei medici. 

Dante lo conosceva, Petrarca lo usava per corrispondere con i grandi dell’epoca. 

Copernico, Galileo, Keplero, Newton scrivevano in latino, perché sapevano che quella era la lingua che li avrebbe resi comprensibili dai loro pari, a qualunque latitudine.

Non solo: per secoli, la corrispondenza tra studiosi europei si è svolta in latino. 

Uomini e donne divisi da lingue e regni trovavano nel latino un punto d’incontro. 

Era la lingua che univa, mentre le lingue nazionali dividevano.

Il latino era appreso nelle scuole monastiche prima, nei collegi poi, infine nelle Università. 

Era lingua di studio, ma anche di preghiera, di giurisprudenza, di scienza. 

Era, in fondo, la spina dorsale di un’Europa che esisteva ben prima dei Trattati di Roma o di Maastricht.

Una lingua che sopravvive nonostante le invasioni, i crolli dinastici, le guerre di religione, le rivoluzioni. 

E che continua ad essere usata nei documenti ufficiali della Chiesa Cattolica ancora oggi: la Acta Apostolicae Sedis è redatta in latino; e non dimentichiamo che l’annuncio della rinuncia di Benedetto XVI nel 2013 fu pronunciato in latino, lasciando di sasso i giornalisti che, semplicemente, non erano in grado ci capire.

Ma ciò che colpisce ancor di più è che il latino non fu mai veramente imposto con la forza, come accadde spesso con le lingue coloniali, inglese compreso. 

Fu adottato, scelto, interiorizzato. 

Era la lingua di Roma, sì, ma divenne la lingua della Cristianità, dell’Umanesimo, della legge, del sapere. 

Una lingua d’uso, anche se non di popolo.

Oggi l’inglese è la lingua dell’efficienza, della comunicazione rapida, dell’algoritmo. 

È una lingua utile, essenziale, ma legata a un dominio pragmatico e materiale. 

Il latino, invece, è la lingua della memoria, della profondità, della riflessione.

È una lingua che ci costringe a pensare, a costruire periodi logici, a dominare la grammatica e la sintassi, a dare forma al pensiero prima ancora che alle parole. 

E per questo, anche se pochi oggi la parlano, continua a formarci. 

Chi ha studiato latino, chi ha frequentato un buon liceo classico, ma anche un buon Liceo Scientifico di una cinquantina di anni fa, lo sa bene, e non lo dimentica più. 

Non tanto perché ricorda le declinazioni o la consecutio temporum, ma perché ha imparato a ragionare.

E non è un caso che oggi la gente non sappia più scrivere correttamente in italiano, se i congiuntivi siano ormai un optional, se  i testi siano scritti letteralmente “come pronunciati”, con parole unite l’una all’altra senza ragione alcuna, inventate di sana pianta, con coniugazioni completamente sbagliate,  e tempi verbali inconsistenti.

Scrivere verbi senza l’h o l’accento, inventarsi parole tipo evvabbè o cualcosa o vabbeneed usarle in modo sistematico, sbagliare i congiuntivi durante una chiacchierata e dire “eh, dai, l’importante è che HAI capito cosa voglio dire, ignorare l’uso degli apostrofi ignorando la differenza tra elisione e troncamento, per dirne giusto qualcuna, sono cose che fanno venir la pelle d’oca. 

Soprattutto quando a farlo sono anche studenti universitari o addirittura laureati. 

Non sto parlando di “cmq”, o espressioni gggiovani, ma di errori che mettono in imbarazzo. 

Certo dopo tanti anni non ho più la facilità di tradurre correttamente il latino, o capire compiutamente tutti i testi , ma talvolta mi capita, quando leggo un passo di Cicerone, o una poesia di Catullo, o anche solo una sentenza medievale, di sentire quella voce antica risuonare viva, come se parlasse a noi. 

Non è nostalgia: è consapevolezza. 

Il latino ci ricorda che la civiltà europea non è nata ieri, e che le sue radici non sono nella globalizzazione, ma nella cultura.

Lo so bene che tornare indietro è impossibile, e forse anche antistorico, ma aver relegato il latino nei Licei quali al livello dell’educazione fisica non ha certo contribuito a migliorare la capacità di espressione dei nostri ragazzi. 

Voglio chiudere con una citazione che magari pochi conoscono. 

Isaac Newton, forse il più grande scienziato moderno, pubblicò la sua opera fondamentale, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica, in latino, nel 1687. 

Quando gli chiesero perché non avesse scritto in inglese, rispose: Scrivo in latino perché voglio essere letto dagli uomini, non dai barbari.”

Sapeva che solo il latino lo avrebbe reso comprensibile, e immortale, in tutto il mondo colto.

Umberto Baldo

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