4 Marzo 2025 - 8.45

Il riarmo per l’Europa e per l’Italia è una strada obbligata

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Lo so che quello di cui sto per parlarvi sembra una chimera.

Mi riferisco alla Difesa europea, di cui si blatera da decenni, ma del tutto vanamente.

E’ però bastato l’arrivo di Donald Trump, con la minaccia di ritiro delle truppe Usa dall’Europa, e con la richiesta di aumento delle spese per la difesa e per la Nato, per rendere improvvisamente drammatico questo problema.

Vi accorgerete più avanti che il mio ragionare si sposterà dal piano militare a quello industriale, e vedrete che non saranno discorsi campati per aria.

Credo sia indispensabile prima di tutto fare il punto sui reali problemi della difesa nella nostra Europa.

Partendo dal fatto che, in realtà, se sommiamo gli eserciti europei, ci sarebbero circa 1 milione e 300mila soldati su cui contare; più degli americani. 

La Francia ha l’esercito più numeroso, con 203mila effettivi; la Germania 181mila, l’Italia 160mila, la Grecia 132mila, la Spagna 124mila, la Polonia 100mila, la Romania 70mila, la Bulgaria 37mila. E poi ci sono i piccoli tra i Ventisette. A parte vanno poi aggiunti gli Inglesi, con 144mila effettivi. Infine le riserve, che dovrebbero aggirarsi su più di 1 milione di uomini e donne. 

Vi starete sicuramente chiedendo. Ma allora dove sta il problema?

Il problema è che presi singolarmente, Stato per Stato, si tratta di numeri ridotti, tanto che da qualcuno sono stati definiti “eserciti bonsai”.

Tanto per fare qualche raffronto su due nazioni purtroppo attualmente in guerra: la sola Ucraina schiera 800mila uomini e donne in armi; la Russia molti  molti di più.

Ma, qualcuno potrebbe obiettare, adesso sono necessari eserciti di professionisti ben addestrati ed equipaggiati, e non carne da cannone!

Sicuramente vero!

Se non che i nazionalismi, gli egoismi, gli sciovinismi, sono talmente diffusi in Europa da avere come conseguenza un cronico “nanismo” delle industrie belliche e delle forniture, con conseguenti costi elevatissimi e difficoltà negli approvvigionamenti.

La riprova l’abbiamo avuto proprio con la guerra in Ucraina, che ha progressivamente svuotato gli arsenali degli Stati europei, privi delle capacità produttive per rimpiazzarli, ma che ha palesato anche che ogni Stato, pur magari facendo parte della Nato, compra ciò che vuole e da chi vuole.

I risultati sono che i Paesi Europei hanno in dotazione 17 diversi carri armati (gli Usa ne hanno solo 1 tipo), 27 tipologie di artiglierie  (gli Usa 2), 20 aerei da caccia (gli Usa 6).

Provate a chiedere pezzi di ricambio ad un Paese amico?

Quasi sempre scoprirete che non ve li può fornire o perché ha armamenti diversi, oppure perché si tratta di armi di generazioni diverse, diventate incompatibili.

Se poi passiamo alle spese militari, particolare che fa salire la pressione al Presidente degli Stati Uniti, consultando il sito “Military Balance”, considerato il Talmud del settore armi, scoprirete che gli Usa l’anno scorso hanno speso per la difesa ben 905 miliardi di dollari, mentre tutti gli Stati Ue, compresi però anche Inghilterra, Turchia e Norvegia, ne hanno spesi in tutto 388.

Tanto per dire, lo zio Vladimir  nel 2024 avrebbe speso 461 miliardi.

Forse su questo punto Donald Trump tutti i torti proprio non li ha, non vi sembra?

A parte la vetustà media dei nostri armamenti rispetto a quelli americani, a fare la differenza c’è poi l’efficienza; mentre gli Usa hanno un solo Governo, uno Stato maggiore e quattro forze armate, noi  abbiamo 27 governi, 27 Stati maggiori, ed un centinaio di forze armate distinte.

Perché queste differenze?

Il motivo è storico-politico, perché dopo la caduta del Muro di Berlino noi europei abbiamo sempre fatto affidamento sulla forza e sulla protezione americana. 

In altre parole, dopo il 1991 l’Europa ha tagliato decisamente i budget della Difesa, concentrandosi sul welfare.

Niente di male, tutto legittimo, tutto comprensibile;  tanto che le nostre industrie militari hanno persino riconvertito al civile gli stabilimenti che producevano armi e munizioni.

Della serie: mettete dei fiori nei vostri cannoni!

Capite bene che invertire questa tendenza adesso non è facile, e soprattutto  non si fa con un colpo di bacchetta magica.

Nel frattempo il mondo è andato avanti, ci sono state evoluzioni nelle catene produttive, ci sono state crisi, delle quali la più evidente riguarda l’automotive. 

Riguardo all’automobile, forse sarebbe successo lo stesso dopo che abbiamo deciso di “condividere” con la Cina le nostre tecnologie (trasferendo le produzioni nel regno del Dragone), ma noi poi ci abbiamo messo del nostro, incaponendoci nel voler diventare la punta di diamante dell’ecologismo mondiale, come se l’atmosfera non avvolgesse tutta la terra.

La conseguenza ormai tangibile è che questa follia collettiva dell’elettrico sta distruggendo l’auto europea, a tutto vantaggio di quella “cinese”, che può contare su tecnologie più avanzate, e su costi di produzione inferiori.

Badate bene che anche i politici europei hanno ormai realizzato che “l’auto non fa più status”, che la vendita di autoveicoli è destinata a calare anno dopo anno, che la concorrenza cinese sarà inarrestabile per quanti dazi possiamo imporre, e che tutto ciò pone nel medio periodo il problema della tenuta dell’occupazione nel settore. 

I primi a muoversi, come spesso capita, sono stati i tedeschi, i quali non solo stanno preparandosi a spendere duecento miliardi in nuovi armamenti, ma stanno muovendosi anchesul fronte della conversione del settore automobilistico. 

Ad esempio il gigante Rheinmetall ha deciso di trasformare le fabbriche di Berlino e Neuss in centri di produzione militare. 

In altre parole, oltre alla normale produzione di munizioni, questo Gruppo sta spostando risorse dallo sviluppo di componentistica per auto alla meccanica militare.

Lo stesso stanno facendo altre aziende tedesche: allineandosi all’imperativo “più armi, la cui domanda è in forte crescita, e meno automobili”.

Knds Deutschland ad esempio ha acquisito uno stabilimento ferroviario a Görlitz, di proprietà Alstom, per convertirlo alla produzione di veicoli corazzati come i Leopard II e i semoventi Rch155. 

Anche l’industria britannica sta seguendo la stessa strada, con una crescente importazione di tecnologie militari.

E noi? Noi che quanto a produzione di auto stiamo peggio degli altri, e siamo anche dipendenti dalle fabbriche tedesche?

Salvare l’automotive, legando gli investimenti sulla Difesa alla crescita economica; questi i due piccioni che l’Italia dovrebbe prendere con la riconversione.

Ed infatti, nel silenzio delle segrete stanze, si sa che il Governo italiano sta valutando un piano per facilitare la conversione di una parte delle aziende del settore automobilistico verso la produzione di componentistica bellica. 

Un progetto, a quanto è dato sapere, promosso dalla stessa premier Giorgia Meloni, che coinvolge i ministri dell’Economia, delle Imprese e della Difesa. 

Si tratterebbe di un cambiamento epocale dal punto di vista economico e industriale, una trasformazione già ventilata e discussa in passato, ma che ora sembra subire una netta accelerazione.

In realtà finché nei Palazzi romani pensano, in Italia la trasformazione è già in atto. 

La joint venture tra Leonardo e Rheinmetall per la produzione di mezzi corazzati rappresenta un primo segnale. 

Anche Iveco Defense sta potenziando le sue attività nel comparto bellico. Secondo fonti industriali, persino Ferrari starebbe valutando collaborazioni con aziende del settore militare.

Per non dire che nei colloqui riservati a palazzo Chigi  il tema è stato affrontato anche in relazione al caso Stellantis, colosso dell’automotive sempre più sbilanciato su strategie globali che rischiano di penalizzare l’Italia.

Immaginare un’auto trasformata in un cingolato potrebbe avere un effetto dirompente sull’opinione pubblica, mentre sul piano strettamente economico avrebbe un impatto positivo. 

Perché al di là dei moralismi, che non condanno sia chiaro, parliamo di un tipo di produzione in forte crescita, e per un operaio montare il parafango di uno spyder piuttosto che quello di un blindato non fa certo differenza; basta che lo stipendio corra ed il posto sia assicurato.  E tutto ciò per lo Stato significa più Pil e meno cassa integrazione da erogare.

Uno studio reperibile nei documenti del Senato dimostra che come ogni euro investito nel settore della difesa generi 1,6 euro di valore aggiunto; il 71% in più rispetto alla media nazionale. 

Questo dimostra, come accennato, che una riconversione mirata potrebbe avere ricadute positive sull’economia in termini sia di crescita di Prodotto Interno Lordo che di occupazione. 

Però quando si parla di armamenti, oltre ai numeri c’è anche la politica.

La premier è consapevole di quanto sia “politicamente sensibile” questo tema in un Paese dove manca “la cultura della difesa”, più volte evocata dal ministro Crosetto, e prima ancora dal suo predecessore Guerini.

Tradizionalmente il diffuso pacifismo di noi italiani, popolo riluttante a combattere, trae linfa dall’antinazionalismo, dalla cattolicità, dal comunismo.

Persino Benito Mussolini dovette prendere atto del fallimento dei suoi propositi di fare degli italiani  “una stirpe guerriera votata alla conquista”.

I primi a muoversi sono stati gli esponenti del Movimento 5Stelle che, appena trapelata la notizia, hanno pensato bene di chiedere un chiarimento a Meloni e soci su una riconversione che, dicono, imporrebbe al Paese “un’economia di guerra”.

Non temete, sono solo i primi; molti altri se ne aggiungeranno.  Di anime belle che pensano che si possa porgere l’altra guancia a chi vuole comunque bastonarti, o che basti una marcia per la pace per dissuadere gli aggressori, il Bel Paese ne è pieno!

Spiace  dirlo, ma è in passaggi come questi che si misura la tempra di un Paese.

I tedeschi (e altri) si stanno già muovendo, e ritengono di attrezzarsi nel giro di un anno.

C’è da sperare che da noi tutto non si areni come al solito in sterili contrapposizioni, in inutili discussioni, in marce e cortei, in rinvii sine die.  Perché così correremmo il rischio di “perdere anche la filiera”.

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