“Il Papa? È dei nostri!”. Come la politica saccheggia ogni Conclave

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Umberto Baldo
In Italia l’elezione di un Papa non è mai solo un evento religioso.
È, piuttosto, una specie di elezione del Presidente della Repubblica con l’aggiunta dello Spirito Santo.
E soprattutto è un’occasione d’oro per la politica nostrana di cercare, anzi di pretendere, un’adesione morale alle proprie posizioni.
Sì, la politica italiana riesce a dividersi anche sul nuovo Papa perché la religione in Italia non è mai stata solo religione.
È cultura, ideologia, potere, morale pubblica. E tutto ciò è, da sempre, materia infiammabile nel nostro sistema politico.
Certo non va trascurato che per quanto sia un capo religioso, il Papa in Italia ha un’influenza reale sul dibattito pubblico. Ogni sua parola su temi etici, sociali o migratori viene letta in chiave politica. Così, se il nuovo Papa ha un profilo più progressista, viene subito “acclamato” da una certa area politica e criticato da un’altra. Viceversa se è più tradizionalista. D’altronde la Chiesa cattolica è parte integrante della cultura italiana, e la sua influenza, seppur in declino, resta forte in molti settori: dalla scuola alla bioetica, dalla famiglia all’assistenza sociale.
Questo porta le forze politiche a cercare (o evitare) l’appoggio del nuovo Pontefice o della sua linea.
Ma in un Paese normale, l’elezione di un nuovo Papa sarebbe salutata con rispetto, attenzione, magari con qualche legittima curiosità.
In Italia, invece, diventa subito campo di battaglia. Appena si affaccia alla loggia di San Pietro il nuovo Pontefice, ecco che partono le interpretazioni di parte, gli anatemi incrociati, le letture ideologiche. A seconda dell’area politica, si grida al “papa progressista” o al “papa conservatore”, al “papa dei migranti” o al “papa della dottrina”, al “nuovo Francesco” o al “nuovo Ratzinger”, in un’assurda guerra delle etichette: “è un papa di sinistra”, “è reazionario”, “è globalista”, “è un tradizionalista mascherato”.
E si comincia subito a tifare. Come se fosse un derby.
In pratica la politica italiana relativamente all’elezione del Papa si comporta come se avesse appena vinto le regionali, con i partiti che si affrettano a leggere nei gesti, nei silenzi, e persino nell’accento del neoeletto Pontefice, i segnali di una presunta vicinanza ideologica.
Destra, sinistra e centro si lanciano in un gioco infantile quanto sfacciato: “Avete visto? È uno dei nostri!”
È accaduto con Giovanni Paolo II, quando i conservatori lo brandivano come baluardo contro comunismo e laicismo. È accaduto con Benedetto XVI, subito etichettato come teologo della dottrina, caro ai tradizionalisti. È accaduto, in modo ancora più clamoroso, con Papa Francesco, trasformato da molti in una sorta di testimonial progressista, mentre altri lo bollavano come “troppo sudamericano” o “troppo buonista”.
Alla prova dei fatti non importa chi sia davvero il nuovo Pontefice, quale percorso spirituale abbia fatto, che idee abbia sull’umanità, la fede o la giustizia: quello che interessa ai partiti italiani è solo capire se potranno usarlo o dovranno attaccarlo.
E’ la solita miseria italiana: politicizzare tutto, strumentalizzare tutto, trasformare anche la figura del Papa, simbolo universale per milioni di credenti, in un pretesto per una rissa da talk show.
Una parte lo rivendica come “compagno di strada”, l’altra lo teme come “nemico del popolo”.
C’è persino chi si affretta a setacciare le sue vecchie omelie per trovare una frase da mettere su Twitter con l’hashtag “resistenza” o “patrioti”.
La politica italiana non riesce a fare a meno del tifo.
Ma non è un tifo sano: è isterico, bulimico, cieco.
La figura del Pontefice, in questa logica, non viene rispettata, né tantomeno capita. Viene usata. Per colpire l’avversario, per alimentare la narrativa di giornata, per dividere un Paese già sbriciolato.
In realtà, questa isteria rivela una cosa sola: che la politica italiana non ha più una visione.
Ha solo bisogno continuo di proiezioni.
E il Papa, qualsiasi Papa, diventa lo schermo ideale su cui proiettare paure, speranze, ideologie in saldo.
Perché nessuno legge più la Dottrina sociale della Chiesa, ma tutti hanno un’opinione su “quanto è di sinistra” o “quanto è sovranista” il nuovo Papa.
Ridicolo? Sì. Ma anche profondamente pericoloso
Perché se anche una figura spirituale come il Papa viene inghiottita nel tritacarne dell’agenda quotidiana, allora vuol dire che non c’è più nulla di sacro.
Non in senso religioso, ma in senso civile. Non c’è più un terreno comune, un rispetto minimo, un senso della misura.
Solo l’urlo. Solo il voto. Solo il meme.
A mio avviso è un ulteriore segno di un’Italia che ha perso il senso delle istituzioni, e forse anche quello del limite.
Non riusciamo più a distinguere tra ciò che è terreno di confronto legittimo, la politica, l’economia, il sociale, e ciò che dovrebbe restare, se non neutro, almeno rispettato: la figura spirituale di un Pontefice.
Anche perché, piaccia o no, il Papa rappresenta milioni di cattolici nel mondo, e l’Italia, con la sua storia, non può far finta di essere laica nel senso francese del termine.
Ma la politica italiana, si sa, ha bisogno continuo di simboli da esaltare o da demolire. E così, come sopra accennato, appena il nuovo Papa dice una parola su ambiente, famiglia, povertà o guerra, lo si incasella subito: “è di sinistra!”, “è reazionario!”, “è globalista!”, “è identitario!”.
E ogni partito cerca di usarlo come megafono delle proprie battaglie, o come nemico comodo da additare alla propria base. Una triste forma di provincialismo morale, che non guarda al messaggio ma all’effetto.
Questa deriva è figlia anche dell’epoca dei leader carismatici, del culto della personalità, dell’assenza di idee forti.
In mancanza di una visione, ci si aggrappa a figure pubbliche forti, come il Papa, per delegittimarle o mitizzarle, a seconda della convenienza del momento.
Il risultato?
Una nuova occasione persa. Perché ogni cambio di Papa dovrebbe essere occasione di riflessione, di ascolto, persino di confronto costruttivo.
Invece si trasforma in un altro spettacolo del teatrino mediatico-politico, dove tutto viene ridotto a slogan.
Alla fine viene sempre in mente quello che sosteneva Flaiano: “in Italia la situazione è grave, ma non è seria”.
Anche quando parla il Papa.
Umberto Baldo













