26 Giugno 2025 - 9.33

Il dilemma di Giorgia: tra Salvini, Trump e… la realtà

Geopoliticus

Dopo due riflessioni dedicate alle evidenti incongruenze della politica di Elly Schlein e del suo “campo largo”, non vorrei dare l’impressione che a gauche vada tutto bene, perché non è così.

E allora vediamo un po’ di evidenziarle queste difficoltà.

Giorgia Meloni ha un problema serio, che potrebbe sembrare quasi irrisolvibile: quello che non può seguire Salvini nel suo entusiasmo per Trump.

Non può, e lo sa bene, assecondare il leader della Lega che, con la consueta disinvoltura, si è spinto perfino a sostenere che i dazi per l’Europa e per l’Italia sarebbero un’opportunità (sic!).

Il che è un po’ come dire che la grandine fa bene all’agricoltura perché stimola la resilienza dei campi.

Chissà, forse secondo lui chiudere i mercati sarebbe la vera modernità. Roba da premio Nobel per l’economia retroattiva del 1930.

ll punto è che quasi tutto ciò che Trump promette di fare in politica estera ed economica va contro l’interesse del “Sistema Italia” o, come ama dire la Premier, contro l’interesse  “deaaa Naaaazzzzziiiioooone”.

Il problema è che Giorgia Meloni si muove su un crinale molto stretto. 

Da una parte non può tradire di colpo il brodo ideologico nel quale si è plasmata ed ha nuotato per anni, perché significherebbe alienarsi una parte importante del suo elettorato: quella cresciuta a pane, anti-europeismo e nostalgie sovraniste, con qualche pizzico di autarchia.

Dall’altra, un ritorno nei ranghi franco-tedeschi, magari nel solco “draghiano, rischierebbe di farle saltare l’equilibrio interno alla maggioranza, scatenando le scorrerie di Salvini, e forse persino l’ira vendicativa del tycoon americano.

Capite che si tratta di un dilemma di sapore esistenziale, perché, da una parte, non può mollare di colpo le sue radici ideologiche, quella destra cresciuta a suon di “ce lo chiede l’Europa” detto col fiele in bocca, ma
dall’altra, sa benissimo che l’Italia non può permettersi di essere il Chihuahua che abbaia contro Bruxelles mentre cerca i croccantini da Berlino. 

La verità è che la Premier è rimasta incastrata nel classico paradosso italiano: sovranista sì, ma solo se c’è qualcuno che ci sovvenziona mentre facciamo finta di essere indipendenti.

Un po’ come i ragazzini che si ribellano ai genitori ma poi chiedono i soldi per la pizza.

E poi c’è la realtà, che è notoriamente “né di destra né di sinistra” e neppure vendicativa.
Quella realtà che ci dice che l’Italia è un paese che vive di export, e l’export, per funzionare, ha bisogno di mercati aperti.

Siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa, il sesto al mondo, e vendiamo quasi tutto a chi ci circonda.

Il 56% delle nostre esportazioni va in Europa, non in Alabama.

Trump coi dazi ci farebbe secchi, e Salvini dovrebbe iniziare a fare campagna elettorale dalle sagre del mais Ogm.

Il paradosso è antico, quasi shakespeariano: più un sovranista si avvicina al potere, più si accorge che l’Italia non è fatta per il sovranismo.

La nostra economia è globalizzata da decenni, il nostro debito lo comprano i mercati, e se ci isoliamo non diventiamo l’Inghilterra, ma la Grecia del 2011 (senza il sole).

Ora, diciamocelo: l’Italia è allergica all’autarchia.

Non siamo né gli Stati Uniti né la Cina.

Siamo un paese lungo e magro, con l’anemia cronica da materie prime, ed una dipendenza emotiva dal “made in Germany”.

Siamo l’equivalente economico di un adolescente viziato: vogliamo girare il mondo ma con i soldi della nonna (la nonna, in questo caso, è Bruxelles).

Eppure, per decenni, la destra italiana ha campato raccontando che “l’Europa ci opprime”, che “dobbiamo difendere la sovranità”, che “torneremo grandi”.

A parole, sembrava di stare all’epoca di De Gaulle. 

Nella pratica, siamo più vicini a Fantozzi che si presenta all’Eurogruppo con il cappello piumato e la spada di plastica in mano. 

Per questo l’“Europa delle Nazioni”, quel bel sogno romantico e un po’ vintage che la destra si coccola da decenni, si sta rivelando un incubo contabile.

Meloni, che è tutto fuorché impreparata, lo sa bene: che l’interesse nazionale non è andare a braccetto con Orbán, ma restare seduti al tavolo buono, con Francia e Germania, dove si decidono le cose importanti — tipo dove finiscono i soldi del PNRR e chi li deve restituire.

Lo capisce anche un bambino che restare ai margini vorrebbe dire perdere influenza politica e soldi; cose che un Presidente del Consiglio dovrebbe cercare di evitare con tutte le forze.

Per chi non è ideologizzato (o a mio avviso non in malafede) tutto questo è lapalissiano come l’acqua calda. 

Ma non per chi ha costruito la sua fortuna elettorale sull’idea che Bruxelles è il male, che fuori dall’euro ci aspetta una nuova Età dell’Oro, magari con la lira, i gettoni telefonici e il ritorno della Rai in bianco e nero, magari anche senza canone.

E quindi, eccoci inevitabilmente arrivati al bivio, al “nodo gordiano” si sarebbe detto in altri tempi.

Riuscirà Meloni a convincere il suo partito (ed il suo alleato) che è ora di cambiare spartito?

Riuscirà Giorgia Meloni a convincere Salvini, La Russa, e la sua base nostalgica che l’Europa non è il nemico, ma il salvagente?

Potrà mai aggiornare il racconto politico da “Dio, patria e sovranità” a qualcosa tipo “mercato, conti pubblici e credibilità”?

Ma soprattutto riuscirà a trasformare un armistizio tattico con l’Europa in una pace strategica?

Francamente non lo so, ma so che se vuole restare a lungo a Palazzo Chigi, dovrà provare a ri-scrivere lo storytelling della destra italiana: meno nostalgica, meno autarchica, meno statalista.

Una destra più repubblicana, più moderna, più europea, meno fissata con il 1943, e più in linea con un Paese che ha bisogno di infrastrutture, tecnologia, export e relazioni solide.

“Vaste programme”, verrebbe da dire, ma le alternative sono pessime.

Ecco perché Giorgia dovrebbe convincere i suoi che essere europei non è tradimento, ma strategia di sopravvivenza.

Che stare con chi conta non è servilismo, ma semplice buon senso.

Che i mercati non sono il demonio, ma il posto dove l’Italia guadagna il pane (e pure il prosciutto, possibilmente senza dazi).

Sì, qualche nostalgico lo perderà per strada.  Magari quelli che parlano ancora di blocco navale, quelli che sognano l’autosufficienza alimentare a base di cipolle di Tropea e pizzoccheri, quelli che ancora parlano di “impero economico italico” o di “uscire dall’euro a schiaffi”.

Ma, visti gli avversari che ha, un Pd che sembra un casting per una serie Netflix sulla crisi esistenziale, e un M5S in gita permanente nel 2013, potrebbe pure governare per i prossimi cinquant’anni.

Sempre che non arrivi prima un’altra Meloni. O peggio: un altro Salvini.

In ogni caso, quando le viene qualche dubbio,  consiglio alla Premier  di andarsi a riguardare “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone, ed in particolare  quella scena fantastica che detta una legge fondamentale: “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto”.
Nel nostro caso, il fucile è la realtà economica, la pistola il sovranismo da talk show.

Geopoliticus

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