I tipi da… Maturità

di Alessandro Cammarano
Ogni giugno – ai miei tempi era luglio – puntuale come la zanzara tigre e il primo tormentone estivo, arriva lei: la Maturità. Una parola che promette serietà, futuro, adultità; e invece si rivela ogni anno per quello che è, ovvero una tragicommedia a metà tra L’attimo fuggente e Tre uomini e una gamba.
Negli anni è cambiato il modo – grazie, o per colpa, della cosiddetta tecnologia – di studiare per l’esame di tutti gli esami.
C’era un tempo, remoto ma neanche troppo, in cui prendere appunti per prepararsi alla maturità significava riempire quaderni con grafie isteriche, sottolineature colorate con Stabilo scoloriti e strane abbreviazioni che solo l’autore poteva decifrare, forse. Si fotocopiavano pagine di libri, si facevano maratone di riassunti a penna, si infilavano bigliettini nel dizionario di latino e ci si tramandavano leggende metropolitane su chi avesse nascosto il Bignami dentro la bottiglietta dell’acqua.
Oggi, invece, il rito si è digitalizzato e smaterializzato: appunti presi su tablet che non verranno mai più riletti, drive condivisi pieni di file dai nomi come “tema_definitivoFINALEv3bis.docx”, studenti che studiano da video di TikTok in cui un ventenne con gli occhiali da sole spiega in Pensiero Oggettivo secondo Hegel in salsa Trap.
Le mappe concettuali sono ormai infografiche da presentare in PowerPoint e l’evidenziatore fisico è stato sostituito dal cursore del mouse; cosicché la preparazione alla maturità è passata dal culto della memoria a quello dell’ansia da notifica.
Ma nonostante la rivoluzione digitale, i tipi umani che affrontano l’esame restano sempre gli stessi. Più aggiornati, forse, ma fedeli alle loro maschere eterne.
Gli studenti si presentano all’appello divisi in tribù antropologicamente stabili, invariabili nel tempo, che resistono alle riforme ministeriali, ai cambi di governo e persino a OnlyFans.
Ecco, quindi, una mappa – incompleta ma verosimile – dell’umanità che popola la giungla della Maturità italiana.
Il secchione stoico.
È colui o colei che sa tutto, da sempre. Lo trovi seduto al primo banco con la schiena dritta e la penna a sfera che gira come una katana. È l’unico a usare ancora i post-it per ripassare filosofia alle sei del mattino, mentre gli altri dormono (o vomitano). Studia dalla seconda elementare per l’esame di maturità. Quando esce la prima traccia di italiano, è già pronto a demolirla in chiave decostruttivista. Non è mai simpatico, ma è sempre il primo a uscire sorridendo. Rara forma di rettitudine morale, esemplare da proteggere.
Ma attenzione: spesso finisce per crollare emotivamente nel bagno della scuola alle 11:43 del secondo scritto.
Il complottista esaurito.
Questo tipo umano non ha aperto un libro da ottobre, ma conosce nei minimi dettagli le voci di corridoio sulla seconda prova. Sa “da fonte sicura” che uscirà Seneca, che il Ministro ha detto una parola in codice su Instagram e che un’amica di sua cugina ha un amico che lavora al Ministero. Vive di panico e Red Bull, si presenta all’esame con occhiaie da panda e una teoria infallibile: “Tanto quest’anno ce la fanno passare tutti, per via del cambiamento climatico.” Al collo, una collanina con la scritta “resilienza”, in omaggio al lessico ministeriale.
La poetessa post-ironica.
Studia al liceo classico, ma detesta tutto ciò che è classico. Porta sandali greci e magliette con citazioni attribuite erroneamente a Coelho.
La sua tesina, che non si chiama “tesina” ma “percorso interiore”, collega Sylvia Plath, la fisica quantistica e i manga shojo.
Durante il colloquio recita una poesia scritta durante il lockdown mentre ascoltava Bon Iver. Il suo sogno è diventare “curatrice di un’idea”, anche se nessuno sa bene cosa significhi.
La commissione la ascolta in religioso silenzio, poi le assegna 100 per timore di venire menzionata in una story passivo-aggressiva.
Il tecnico svitato.
Viene da un istituto tecnico o professionale, e si presenta con una sicurezza che rasenta l’incoscienza. Ha passato i cinque anni imparando cose utili – tipo come funziona un motore o come si progetta un impianto elettrico – e ora si trova a spiegare il Decameron come se fosse una sit-com.
Per lui la seconda prova è un terreno amico; la prima, un salto nel vuoto. Sorride sempre, anche quando sbaglia il nome del presidente della Repubblica e il suo motto è: “L’importante è finire”, come cantava Mina.
E spesso finisce bene, anche meglio degli altri.
La rappresentante sindacalizzata.
È l’anima politica della classe, forse anche dell’intera scuola. Ha partecipato a tutti gli scioperi, indetto assemblee per ogni causa immaginabile e raccolto firme per i diritti degli armadilli transgender.
La maturità per lei è un’istituzione obsoleta, patriarcale e poco inclusiva. Durante il colloquio, cerca di deviare ogni domanda verso la critica al sistema scolastico, citando Marx, Don Milani e la madre. Ha un eloquio fluente, non risponde quasi mai alla domanda posta, ma convince. Di solito prende un voto alto, e se non lo prende, scrive un articolo indignato su un quotidiano alternativo dello Sri-Lanka.
Il fantasma.
C’era? Non c’era? Ha frequentato il 37% delle lezioni e si è visto in presenza meno della Cometa di Halley; nessuno conosce la sua voce, ma tutti ricordano vagamente il suo zaino. Eppure, è lì, il giorno dell’esame, inaspettatamente vivo.
Scrive quattro righe per tema, sbaglia congiuntivi e coniuga Leopardi con la musica drill. Sorprendentemente, prende un 66 e saluta con un’alzata di spalle.
È la rivincita dell’entropia scolastica, la prova che l’universo non segue una logica lineare.
E poi ci sono gli altri: quelli che copiano, quelli che piangono, quelli che hanno imparato tutto a memoria come i call center. Ma alla fine, questi studenti – con i loro stili, tic, paranoie e ticchettii – sono il ritratto di un Paese intero. Un Paese che cambia tutto perché nulla cambi, in cui la Maturità resta il primo – finto – passaggio alla vita adulta.
Perché diciamolo: tutti fingono che la Maturità sia la fine di qualcosa, ma la verità è che è solo l’inizio di un altro incubo. Si chiama università o, peggio, mondo del lavoro. Ma almeno lì non ci saranno più le tracce ministeriali su Nonno di Panopoli. Forse.













