Gay sì, ma non troppo, specie se ebrei

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Tempo d’estate, tempo di Pride.
Elly Schlein è tornata raggiante dalla trasferta a Budapest sventolando la bandiera arcobaleno, e lanciando i suoi ormai consueti strali contro le destre “nazionaliste e reazionarie”. Traduzione: Giorgia Meloni & co. colpevoli, a suo dire, di condurre una guerra alle libertà individuali e ai diritti LGBTQIA+. (quel “+”, lo confesso, mi lascia sempre un filo perplesso: è un jolly socioculturale? Una clausola di salvaguardia semantica?).
Ora, non tocca a me, che vengo da una tradizione liberal-democratica, difendere le destre italiane.
Anche perché, va detto, la storia dei rapporti della gauche con le minoranze in generale non è affatto esente da ombre ed ambiguità.
Ma non si può tacere davanti a un caso lampante di doppia morale, o meglio: di “trave e pagliuzza”.
Sì, perché se da una parte si va a Budapest per contestare Orbán e la sua politica omofobica, dall’altra si fa finta di non vedere cosa succede sotto casa, dove in un tripudio di bandiere palestinesi il pride meneghino si è trasformato di fatto in un corteo “pro Hamas”.
Il paradosso è servito: mentre i dirigenti del Partito Democratico e della sinistra radicale manifestavano in Ungheria contro l’omofobia del regime, in Italia, proprio nelle “loro” città, da Firenze a Napoli, da Bologna a Milano, la comunità ebraica LGBTQIA+ veniva di fatto esclusa dai Pride.
Keshet Europe, l’associazione che rappresenta proprio questa doppia “minoranza”, voleva sfilare con le proprie bandiere ( quelle arcobaleno con la stella di Davide).
Ma no, grazie. Troppo complicato. Troppo divisivo.
Troppo ebrei!
Meglio evitare, che poi qualcuno si offende. Non sia mai.
E così i gay ebrei italiani sono rimasti a casa. Perché va bene essere gay, ma ebrei no. O viceversa.
Non dimentichiamolo: gli omosessuali, nei paesi arabi che una certa sinistra guarda con ammiccamenti ideologici, vengono regolarmente impiccati.
A Gaza non si fa coming out, si fa testamento, in Iran non si fa carriera, si rischia la forca.
E così succede che molti di loro trovino rifugio proprio in Israele, dove il Pride si celebra da anni e dove Tel Aviv è diventata uno dei principali simboli della cultura queer mondiale.
Eppure, proprio in Italia, la comunità ebraica LGBTQIA+ ( Keshet Europe in testa) è stata messa alla porta.
Non solo nessuno ha sfilato con loro, ma nessuno ha fiatato quando sono stati esclusi.
Silenzio. Omertà ideologica. E non è un caso isolato.
Daniele Nahum, consigliere comunale a Milano si è visto costretto a lasciare il PD.
Emanuele Fiano continua a gridare nel deserto, denunciando l’antisemitismo che, va detto, si annida a destra quanto a sinistra.
Possiamo girarci attorno quanto vogliamo, ma la verità è questa: la sinistra ha un problema enorme con gli ebrei.
Non li considera nemmeno più una minoranza da tutelare.
Non sono “ultimi” abbastanza. Non sono “vittime” giuste. Non fanno comodo alla narrazione.
E così, mentre a Budapest si fanno selfie con la bandiera arcobaleno in spalla, in Italia si permette che la Brigata Ebraica venga insultata il 25 aprile, e che i gay ebrei non possano manifestare ai Pride. E nessuno si scandalizza.
La destra israeliana non ama i carri colorati? Può essere!
Ma il 7 ottobre a morire nei rave sotto le armi di Hamas non erano certo i supporter di Netanyahu.
Erano ragazzi. Molti di loro LGBTQIA+. Ebrei. Progressisti. Ma su questo, silenzio.
La sinistra italiana, in nome della sua guerra santa contro il governo Meloni, è disposta a sacrificare tutto.
Anche la coerenza. Anche la credibilità. Anche “quattro ebrei italiani e omosessuali”, che evidentemente disturbano la narrazione.
Perché, e qui sta il punto, un gay ebreo italiano, agli occhi della nuova sinistra identitaria, vale meno di un gay ungherese.
E magari anche meno di un gay palestinese.
Non è abbastanza vittima, non è abbastanza comodo. È un problema. E i problemi, si sa, è meglio rimuoverli.
Insomma, i diritti arcobaleno vanno bene, ma vanno selezionati.
Come al supermercato: prendi 3, paghi 2, ma solo se sono genericamente progressisti, preferibilmente antioccidentali, possibilmente anti-israeliani. Gli altri, magari, un’altra volta.
Ma se i diritti si difendono solo quando fa comodo, allora non sono diritti.
Sono bandierine da sventolare a intermittenza.
E se si grida contro Orbán ma si tace davanti all’ipocrisia delle piazze italiane, allora non si sta difendendo l’inclusività.
Si sta facendo solo propaganda.
Umberto Baldo













