29 Luglio 2025 - 7.53

Elly Schlein:  tre passaporti e una poltrona

di Umberto Baldo.

Nel tempo della dissimulazione permanente, dove tutto può essere scusato in nome dell’identità fluida e della modernità liquida, oggi mi soffermo su una questione apparentemente marginale, come una cittadinanza multipla che può apparire fuori luogo.

Elly Schlein (non ho nulla di personale contro di lei, anche se le sue idee sono agli antipodi delle mie) madre italiana e padre americano, ha acquisito per nascita (e per naturalizzazione quella elvetica) i passaporti dei tre Stati. 

Il tricolore, la croce bianca e le stelle a strisce: un bel mazzo di carte per chi vuole sedersi al tavolo della politica.

Ovviamente io non li ho né visti né toccati con mano i suoi tre passaporti (italiano, svizzero, statunitense) ma a quando risulta, la Segretaria del PD possiede effettivamente una tripla cittadinanza; come confermato da diverse fonti autobiografiche autorevoli, tra cui le voci di Wikipedia in inglese, francese, tedesco e italiano.

Non ho trovato in Rete alcuna fonte che riferisse di alcuna rinuncia.

Nessuno scandalo, fin qui: la legge italiana lo consente pienamente, e non impone la rinuncia alla cittadinanza nazionale in caso di acquisizione di cittadinanze estere.

La norma di riferimento, la legge n. 91 del 1992, prevede infatti che si possa essere italiani anche se nel portafoglio convivono altri documenti, purché non si presti servizio pubblico o militare per Stati esteri od Organizzazioni internazionali estranee all’Italia.

Ricapitolando, Elly Schlein ha cittadinanza italiana (via madre), statunitense (via padre) e svizzera (per naturalizzazione); la legge italiana lo consente, a meno non accetti un impiego pubblico o un incarico da uno Stato straniero, o da un’Organizzazione internazionale cui l’Italia non aderisca,  si presti il servizio militare presso altro Paese (in questi casi si perde quella italiana).

Tutto formalmente in regola quindi; come nel caso di Giovanna Melandri, che divenne deputato e anche Ministro pur avendo anche la cittadinanza Usa per nascita.

Ma come dico spesso, quel che può essere accettato per un cittadino comune può invece rappresentare un problema per un rappresentante eletto del popolo.

Perché una cosa è la regola formale, altra è  l’opportunità  politica ed istituzionale

Io penso che una cosa vada detta chiaramente, senza dietrologie né faziosità: ambire a guidare il governo italiano, cui legittimamente non nasconde di aspirare Elly Schlein, significa assumere la massima responsabilità nei confronti di un solo Paese, di una sola Costituzione, di un solo popolo. 

Non è questione di fedeltà sentimentale (nessuno mette in dubbio il suo legame culturale o familiare con l’Italia), bensì di lealtà politica esclusiva. 

E di apparenza, sì, anche quella. 

Perché in democrazia anche l’apparenza conta: quando siedi a Palazzo Chigi, devi togliere ogni zona d’ombra, ogni dubbio di doppia (o tripla) appartenenza.

E a guardar bene, è sempre il discorso della “moglie di Cesare….”  che ritorna. 

È solo una coincidenza se oggi ci si confronta quotidianamente su dossier caldissimi che riguardano gli Stati Uniti di Donald Trump e la loro influenza geopolitica, militare e finanziaria? 

È solo un dettaglio se la Svizzera rappresenta storicamente un crocevia bancario, fiscale e diplomatico con interessi spesso divergenti da quelli dell’Unione Europea? 

Capisco che si tratti di un’ipotesi di scuola, ma che succederebbe, poniamoci il caso, se da presidente del Consiglio la Schlein  dovesse trattare un contenzioso commerciale con Washington? 

O difendere le prerogative italiane in un arbitrato internazionale che coinvolgesse una multinazionale elvetica? 

Per carità nessuno, io per primo, vuole mettere in dubbio la sua buona fede, ma la buona fede non basta, perché la politica vive anche di simboli, di coerenza, di chiarezza.

E allora, la domanda è semplice e legittima: può chi aspira a rappresentare l’Italia nel mondo, e a gestire i rapporti con Stati potenti come USA e Svizzera, continuare a esserne anche cittadina? 

O, più sobriamente: non sarebbe il caso che, nel momento in cui si candida alla guida del Paese, facesse un passo formale, simbolico e politico, rinunciando agli altri passaporti?

Del resto, non si tratterebbe di un’abiura, ma di una scelta di campo. Che rafforzerebbe la sua credibilità, toglierebbe argomenti ai critici, e soprattutto invierebbe un messaggio chiaro: “io sono al 100% dalla parte dell’Italia, senza riserve, senza ambiguità”.

In altri contesti, questa discussione non sarebbe nemmeno necessaria. 

Negli Stati Uniti, ad esempio, nessuno può diventare presidente se non è cittadino statunitense per nascita. 

In Svizzera, se si ottiene una cittadinanza per naturalizzazione, è obbligatorio giurare fedeltà alla Confederazione. 

In Francia, ai ministri è caldamente richiesto di non avere altre cittadinanze attive, per evitare conflitti potenziali.

Noi italiani, invece, continuiamo a convivere con un’idea sfocata di identità nazionale: sempre tolleranti, spesso disattenti, raramente esigenti. 

Ma forse è ora di iniziare a pretendere qualcosa di più: trasparenza, esclusività di mandato, coerenza con il ruolo.

Elly Schlein, per quanto mi riguarda, se lo ritiene opportuno può certamente restare cittadina di tre Paesi diversi. 

Ma mi si consenta di pensare che se vuole essere credibile come guida di uno solo, dovrebbe cominciare a scegliere.

Concludendo, Elly Schlein – segretaria del Partito Democratico e candidata in pectore a Palazzo Chigi – si candida a guidare un Paese che ha mille problemi, ma che almeno una certezza dovrebbe averla e pretenderla: un Capo di Governo che risponda solo all’Italia, e non che possa esibire altri due passaporti come carte fedeltà del duty-free.

Perché va bene la globalizzazione, va bene l’inclusività, va bene l’“io sono cittadina del mondo” – ma a Palazzo Chigi ci serve un cittadino italiano, punto.

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