Dalla Mecca dei cervelli al deserto Trumpiano. L’eco lunga degli anni Trenta

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Nel 1938, quando Enrico Fermi lasciò l’Italia fascista dopo aver ritirato il Nobel a Stoccolma, trovò rifugio negli Stati Uniti. Era un Paese che, nonostante le sue contraddizioni, sapeva ancora distinguere un genio da un nemico. Oggi quell’America sembra essere evaporata.
C’è qualcosa di sinistramente familiare in quello che sta accadendo oggi negli Stati Uniti di Donald Trump. È un déjà-vu storico che richiama alla mente scenari già visti, e che proprio per questo dovrebbe preoccuparci. Come negli anni ’30 del secolo scorso, anche oggi si cerca un nemico interno da additare al pubblico ludibrio. Allora in Europa furono gli ebrei, gli intellettuali, i “cosmopoliti senza radici”.
Oggi, negli USA trumpiani, il bersaglio sono le élite accademiche, colpevoli, a quanto pare, di rappresentare un sapere “troppo libero”, troppo critico, troppo internazionale. Trump e i suoi replicano uno schema collaudato dagli Hitler e dai Mussolini: “individua un’élite, accusala di cospirare contro il “popolo”, e poi colpiscila senza pietà”. E se nel frattempo perdi qualche decina di migliaia di ricercatori, pazienza; l’importante è che resti il culto della mediocrità.
È difficile non vedere il paradosso.
L’America degli anni ’30, quella di Roosevelt, fu la terra promessa per scienziati in fuga dalle dittature europee. Accolse a braccia aperte, e con intelligenza politica, menti come Enrico Fermi, Leo Szilard, Albert Einstein. Quella scelta lungimirante contribuì in modo decisivo alla vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, ed al predominio tecnologico e scientifico del dopoguerra. Oggi invece succede l’opposto: è l’America a cacciare via le sue eccellenze, come se potesse permettersi di perdere la leadership culturale e scientifica in nome di una vendetta ideologica contro un’élite percepita come “nemica del popolo”.
Il risultato? Una fuga.
Non solo di cervelli stranieri, ma americani. Gente brillante che emigra in Europa, in Canada, in Australia. L’America, che fu rifugio per chi scappava dai regimi, diventa ora un luogo da cui fuggire. Non è solo ironico: è tragico. È una nemesi. E intanto, mentre le Università Usa si svuotano, le folle applaudono. Come applaudivano, un secolo fa, certi italiani e certi tedeschi, mentre bruciavano i libri nelle piazze e cacciavano i professori dalle cattedre. La storia non si ripete, si dice. Ma ha una memoria lunga, e un sarcasmo feroce.
Non si ripete mai davvero, ma spesso fa rima, e a volte tragicamente.
L’Europa, (e speriamo anche l’Italia filo Trumpiana) stavolta, sembra pronta ad accogliere chi scappa.
E forse, per una volta, potrà essere il Continente Antico, dopo tanto tempo, a guidare.













