“Spendiamo, dunque siamo”. Finché l’orchestra suona

Umberto Baldo
Un amico, commentando il mio editoriale di lunedì (https://www.tviweb.it/economia-non-osservata-larte-tutta-italiana-di-non-vedere/) mi ha fatto notare che la cosiddetta “economia non osservata” — quella fatta di contanti, sottobanco e nero pece — è strettamente collegata al problema del debito pubblico e del welfare.
Osservazione corretta.
Perché le risorse prodotte dall’economia “sommersa” o criminale, che sfuggono al fisco, pur gonfiando il Pil come la schiuma della birra, non si ritrovano mai nei conti dello Stato.
In altre parole: contribuiscono a far crescere il dato statistico, ma non finiscono mai a finanziare ospedali, pensioni e scuole.
In pratica, sono soldi “fantasma”: esistono, ma non li vediamo mai passare davanti alla finestra.
Del resto, l’economia di uno Stato è come un orologio svizzero (purtroppo costruito in Italia): ogni ingranaggio dipende dall’altro.
Tocchi un dente, e il meccanismo va in tilt.
Vale per tutto: dalla tassazione, al debito pubblico, fino al mitico “magazzino dei crediti” dell’Agenzia delle Entrate, che ormai sembra più il magazzino di Arlecchino.
Un tempo il problema del debito sembrava roba da Paesi poveri, quelli del cosiddetto Sud del mondo, che faticavano a uscire dalla miseria perché avevano più interessi da pagare che pane da mangiare.
Oggi, invece, il dramma è tutto nel mondo “ricco”, dove i bilanci pubblici sono più disastrati di un matrimonio di lunga data.
Lo dice persino The Economist: le economie più evolute sono finite a vivere “a credito”, con la carta di debito nazionale sempre al limite.
Prendete la Francia: un Paese che cambia Primi Ministri come fossero pneumatici invernali.
Macron aveva osato proporre di alzare l’età pensionabile da 62 a 64 anni (non a 67, come fece Monti da noi) e la Francia della Révolution gli ha risposto con il classico “non, jamais!”.
Risultato: il nuovo premier Lecornu, se non voleva rischiare la ghigliottina (politica, ma non troppo), ha rimandato la riforma al 2027.
Tradotto: aprés moi le déluge.
In Inghilterra la situazione non è migliore: i buchi di bilancio paralizzano tutto, ma nessuno osa ridurre un welfare diventato una coperta di Linus nazionale. Tagliare? Mai. Alzare le tasse? Giammai.
E sull’Italia stendiamo un velo pietoso: tanto la storia la conosciamo, e il finale pure.
Il debito dei Paesi “ricchi” viaggia ormai intorno al 100% del Pil.
Se però guardiamo al G7, il livello sale al 130%.
Le cause? Sempre le stesse: crescita bassa, produttività che non decolla nonostante le tecnologie digitali, crisi demografica, popolazioni che invecchiano, spese sanitarie e pensionistiche in aumento, e sempre meno giovani che lavorano e versano contributi.
Risultato: i Governi avranno sempre meno soldi per sanità, scuola, infrastrutture e — rullo di tamburi — pensioni.
In pratica il mondo vive spendendo una volta e mezza quello che produce.
Una follia aritmetica che però funziona, perché ogni Stato trova sempre qualcuno disposto a prestargli soldi, come ad un amico cronico che “giuro, te li ridò lunedì”.
Sembra un’assurdità matematica eppure è proprio così, e per capirlo bisogna partire dalla distinzione tra stock e flusso.
Il prodotto interno lordo (Pil) misura il valore di tutti i beni e servizi prodotti in un paese durante un anno, quindi è un flusso annuale.
Il debito pubblico è invece uno stock che si accumula nel tempo sommando i deficit di bilancio di ogni anno.
In pratica quando un Governo spende più di quanto incassa dalle tasse, per coprire il buco deve giocoforza prendere le risorse che gli servono a prestito, emettendo titoli di Stato, come ad esempio i Btp.
Finché qualcuno li compra, la barca galleggia.
Ma quando i compratori si stancano… beh, speriamo di aver già trovato la scialuppa.
Oggi, le nazioni più indebitate non sono quelle povere, ma quelle che si credevano eterne: Stati Uniti (37.400 miliardi di dollari di debito), Giappone, Francia, Italia, e perfino la Cina, che sta correndo di gran carriera verso il 100% del Pil (dall’83% attuale).
Tutti uniti nel club degli spendaccioni globali, dove si brinda al futuro con denaro del passato.
A questo punto fatalmente arrivo alla conclusione, che in realtà è una domanda: fino a quando potremo vivere così, a debito, fingendo che il conto lo pagherà qualcun altro?
Questa è in realtà una domanda che una politica “seria” (e non faccio distinzioni quindi fra destra e sinistra) dovrebbe porre agli elettori in ogni campagna elettorale
Domanda scomoda, perché chi la pone rischia la carriera: se la politica parlasse onestamente di numeri, diventerebbe subito politica “morta”.
Verrebbe sostituita dal populismo da discount, quello deteriore e canagliesco che racconta favole: “i soldi ci sono, basta prenderli ai ricchi!”, “i partiti li hanno rubati tutti!”, “mettiamo una patrimoniale e risolviamo tutto!”.
Sembra il sequel economico di Pinocchio, con Geppetto al Tesoro e la Fata Turchina al Ministero del Lavoro.
E così il popolo dei bonus, dei superbonus, dei condoni, delle sanatorie e delle esenzioni applaude felice, convinto che il Paese possa continuare a vivere di regali fiscali.
L’orchestra suona, i bicchieri tintinnano, la nave è illuminata.
E l’iceberg, da lontano, sorride.
Finché dura.
Umberto Baldo













